«Insomma, se la storia recente ha profondamente cambiato i termini economici e tecnici della questione meridionale, la sua essenza resta quella indicata dai grandi meridionalisti del passato: quella, cioè, di una grande questione etico-politica, che investe le stesse fondamenta morale della società nazionale e dello Stato unitario». Sono le parole con cui Pasquale Saraceno apriva la sua introduzione al Rapporto 1989 sull’economia del Mezzogiorno della Svimez.
Da queste parole emerge chiaramente la consapevolezza, diffusa in tanti uomini di Stato che costruirono la nostra Repubblica, che la questione dell’unificazione economica dell’Italia fosse anche una questione di unificazione politica: la tensione al superamento del divario tra Nord e Sud (una “missione”) costituiva una delle principali responsabilità dello Stato. E di conseguenza, il suo mancato superamento poteva compromettere la ricostruzione anche politica del Paese che usciva devastato dalla Seconda guerra mondiale. Una consapevolezza che nel dibattito politico ha perso sempre più vigore nel corso degli ultimi decenni, fino alla sua derubricazione, nella cosiddetta “Seconda Repubblica”, a questione locale, progressivamente superata dalla centralità che è andata assumendo, per contrapposizione, la questione settentrionale.
La narrazione proposta dalla politica ha spezzato la coesione tra Nord e Sud alimentando opposte rivendicazioni territoriali
Eppure proprio oggi che il Paese si trova ad immaginare una nuova politica di ricostruzione del Paese è necessario ritrovare le ragioni di quello spirito unitario. Da troppi anni la politica nazionale, senza particolari distinzioni tra schieramenti, ci ha abituati ad una narrazione di economia e società italiane sommatorie geografiche di due parti con problemi diversi e, perciò, alla ricerca di soluzioni distinte. Non era così. Nord e Sud, già prima della pandemia, erano più uniti e “interdipendenti” di come volevano le soluzioni “per parti” invece attuate. Ma la narrazione proposta da una politica nazionale inconsapevole dei benefici legati alla valorizzazione delle interconnessioni tra Nord e Sud ha finito per spezzare quella coesione, alimentando opposte rivendicazioni territoriali. È cresciuto il malcontento del Nord produttivo vittima dell’oppressione fiscale e burocratica, la stessa (se non maggiore) peraltro che schiaccia i ceti produttivi meridionali. Mentre nel Sud l’impoverimento della società conseguente alla crisi, insieme al progressivo peggioramento nell’offerta dei servizi pubblici essenziali (scuola, sanità e servizi sociali), ha alimentato la richiesta di assistenza, cavalcata da classi dirigenti sempre più deboli – riaccendendo la fiamma del rivendicazionismo sudista.
Il PNRR continua ad essere uno strumento di cruciale importanza per la ripartenza
Per favorire la crescita senza lasciare indietro gli ultimi, al Nord e al Sud, la politica di ricostruzione, resa possibile anche dal nuovo quadro europeo delineatosi con il Piano NextGenerationUe, andrebbe ispirata ad una visione unitaria del Paese. Un’azione che non può che partire da una riqualificazione dell’azione pubblica volta a rafforzare i diritti di cittadinanza nei territori più deboli. In questo scenario, il PNRR continua ad essere uno strumento di cruciale importanza per la ripartenza. Infatti, se da un lato si spera che esso possa essere accompagnato da ulteriori politiche di breve periodo volte a ridurre la morsa dell’inflazione sulle famiglie più esposte, dall’altro si auspica che il PNRR possa essere lo strumento adatto per “mettere a terra” investimenti volti alla crescita di lungo periodo, piuttosto che alla sostituzione della spesa ordinaria dello Stato. Tra questi investimenti strategici, vi è sicuramente quello destinato alla scuola che, insieme all’Università, è inserita nell’ambito della missione 4. Missione che dovrebbe, insieme a tutte le altre, intersecarsi con uno degli obiettivi cosiddetti trasversali: Mezzogiorno e riequilibrio territoriale.
La questione meridionale parte dalla Scuola: al Sud più disagi che al Nord
Purtroppo, proprio sulla scuola e sulle sue infrastrutture, le anticipazioni del Rapporto Svimez hanno presentato uno spaccato preoccupante, che racconta di un Paese in grave difficoltà. Soffermandoci solo sulla scuola primaria, nel Mezzogiorno circa 650mila alunni (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200mila (87%), in Sicilia 184mila (88%), in Puglia 100mila (65%) e in Calabria 60mila (80%). Anche nelle regioni del Centro-Nord la situazione non è delle migliori: gli allievi senza mensa sono 700mila, il 46% degli studenti. Inoltre, sempre nel Mezzogiorno, circa 550mila allievi (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione mentre registrano un netto ritardo la Campania (170mila allievi senza, 73% del totale), la Sicilia (170mila, 81%), la Calabria (65mila, 83%). Nel Centro-Nord gli allievi senza palestra corrispondono al 54%. Situazione leggermente migliorativa, ma comunque allarmante, riguarda invece la dotazione di palestre per le scuole secondarie di I e II grado. Ma il dato più preoccupante è senza dubbio quello legato al tempo pieno e alle ore “perse” delle bambine e dei bambini del Sud rispetto ai loro coetanei del Centro-Nord. Infatti nel Mezzogiorno solo il 18% circa degli allievi accede al tempo pieno, rispetto al quasi 50% del Centro-Nord. Si può argomentare che lo scarso ricorso al tempo pieno sia legato a fattori economici (alta disoccupazione, soprattutto femminile) e culturali che producono una scarsa adesione a questo servizio offerto dalla scuola. Ma il vero punto è che molto spesso la scuola non è in grado di offrire un servizio adeguato soprattutto per mancanza di infrastrutture idonee allo scopo (mense per l’appunto…), con il risultato di scoraggiare l’adesione delle famiglie. Il risultato finale è che gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è su base annua di circa 200 ore. Considerando un ciclo scolastico intero (5 anni), gli alunni di Molise e Sicilia perdono circa 1000 ore che corrisponde a circa il monte ore di un anno di scuola primaria.
Nel Mezzogiorno il 79% degli alunni non beneficia di alcun servizio mensa, al Centro-Nord sono il 46%
A questo punto sorge spontanea una domanda: ma se i dati sulle infrastrutture scolastiche sono disponibili a chi deve implementare le politiche, come mai non si è pensato di destinare le risorse del PNRR in maniera puntuale, plesso scolastico per plesso scolastico, piuttosto che metterli a bando utilizzando procedure competitive? Se tra gli obiettivi del PNRR c’è anche quello della coesione territoriale e della riduzione delle disuguaglianze del Paese, cosa ha impedito la creazione di procedure volte a ridurre i divari in maniera più ragionevole e, forse, efficace? Mancano ancora quattro anni alla fatidica scadenza PNRR (agosto 2026). C’è ancora tempo per modificare modalità e strumenti di intervento al fine di cogliere la straordinaria opportunità che l’Europa ci offre per colmare i divari sui diritti di cittadinanza, soprattutto con riferimento alla Scuola. Il miglior investimento che un Paese possa fare per garantire un futuro migliore a sé stesso e ai propri giovani. Non ci si può accontentare del solito richiamo alla necessità di rilanciare il Sud con un generico piano di investimenti, magari per compensarlo in vista della concessione di nuove forme di autonomia rafforzata a Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. Sarebbe un film già visto tante volte. Per cogliere l’occasione della ricostruzione, occorre una nuova visione del rapporto Nord-Sud e delle politiche di sviluppo, partendo proprio dalla riduzione dei divari di cittadinanza.
Questione meridionale ancora aperta, occorre una nuova visione del rapporto Nord-Sud e delle politiche di sviluppo
Tornando alle parole di Pasquale Saraceno, era il 1991 quando esprimeva la sua preoccupazione per «l’appassire del sentimento dell’unità nazionale» per il «diffondersi, in luogo di quel sentimento, di un rumoroso populismo dialettale che reclama, in nome di interessi e culture locali, la liquidazione fallimentare della nostra storia unitaria». Un monito inascoltato che ha indebolito il nostro Paese negli ultimi decenni e che forse, solo ora, per la drammaticità del momento può essere richiamato e messo in discussione. E se domani pensassimo di nuovo al Mezzogiorno, ai suoi giovani altamente scolarizzati, al suo patrimonio ambientale e culturale, alle esperienze di innovazione, alle filiere produttive che hanno mostrato resilienza alla crisi, alla sua posizione strategica nel Mediterraneo, come una parte importante della soluzione ai problemi del Paese?
Luca Bianchi, Direttore generale SVIMEZ – L’Eurispes