Magari questo gioverà come esperienza a qualcuno, gli consiglierà più prudenza nel giudicare le manifestazioni degli altri. Ma non è questo il nodo politico che emerge da quella iniziativa. Ciò che più fortemente salta agli occhi, invece, è la solitudine del ceto politico regionale. In quella piazza c’erano il Sindaco di Messina, c’erano assessori regionali, c’erano deputati regionali e nazionali, c’erano segretari di partito e di sindacato, c’erano presidenti di ordini professionali, c’erano politici, ex politici e aspiranti politici. Mancava tutto il resto.
Il Sì al Ponte, cioè, non ha un popolo, ma è lasciato solo anche dalle filiere politiche cui quella composizione appartiene. Insomma, è stata la piazza della tristezza, della disperazione, la piazza di chi cerca di farsi largo (in vista, tra le altre cose, della vagonata di liquidità che arriverà), ma manifesta la tragica realtà di non portare a casa nulla.
Quella piazza non può essere produttiva per il nostro territorio poiché nel porre domande ospita al proprio interno anche chi a quelle domande avrebbe già dovuto dare risposte, che porta su di sé la responsabilità dei disastri in cui viviamo e della marginalizzazione che negli anni abbiamo subito. Non verrà da quella piazza il nostro riscatto, troppo modesta nei contenuti e decontestualizzata rispetto al crisi sanitaria ed economica in cui siamo sprofondati.
Anche qui, non sarebbe difficile elencare le ragioni del fallimento di un modello di sviluppo basato sull’urbanizzazione selvaggia cui la politica delle Grandi Opere è funzionale, così come non faremmo fatica a descrivere il paesaggio dello Stretto come la nostra maggiore ricchezza. Ma che glielo spieghiamo a fare? Quel ceto politico è il problema. Non può essere anche la soluzione.
Rete No Ponte