Secondo i proibizionisti, mettere fuori legge il gioco con vincite in denaro significherebbe eliminare i rischi di ludopatia e salvaguardare le finanze delle famiglie italiane. Chi difende il gioco legale, invece, sostiene che un divieto toglierebbe importanti risorse al fisco (10 miliardi circa) e porterebbe alla diffusione del gioco illegale. Agimeg ha chiesto ad alcuni esperti quali potrebbero essere le conseguenze pratiche di una ipotetica decisione del genere, prendendo in considerazione due aspetti: quello economico e quello sociale.
Uno studio della Cgia di Mestre calcola che se si dividessero i soldi che attualmente arrivano nelle casse dello Stato dal gioco legale per tutti gli italiani ogni famiglia dovrebbe, in media, sborsare circa 235 euro. Quindi se il gioco fosse completamente vietato, come farebbe lo Stato a richiedere ad ogni famiglia italiana 235 euro? Attraverso nuove tasse? E con che criterio verrebbero introdotte?
“Se venissero a mancare quei 10 miliardi, si dovrebbe sicuramente trovare un’altra fonte d’entrata. Si dovrebbe introdurre una nuova imposizione fiscale” spiega Giuseppe Di Taranto, economista e docente alla Luiss di Roma “tanto più che lo scorso anno abbiamo evitato la procedura d’infrazione dell’Unione europea ma accettando dei vincoli molto stretti per il 2020. E sono stati già tagliati alcuni provvedimenti, come il Reddito di cittadinanza e Quota 100. Un aumento della pressione fiscale, comunque, ricadrebbe sui contribuenti: le aziende hanno già un peso fiscale tra i più alti d’Europa, dato che l’insieme degli oneri a carico loro è di oltre il 60%”.
C’è un’alternativa: anziché recuperare quell’introito con altre tasse, si potrebbero tagliare alcuni servizi. Lo spiega Dario Peirone, ricercatore e docente di Economia e gestione delle imprese all’Università di Torino e direttore dell’istituto Milton Friedman.
“Il gettito in questione è notevole. Se venisse a mancare di colpo e si dovesse scegliere a cosa lo Stato dovrebbe rinunciare, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta: dal reddito di cittadinanza al salario minimo. Ma sarebbe più grave se si scegliesse di rinunciare a un investimento strategico. Una spesa che produrrebbe i suoi risultati negli anni a venire. Per esempio, il piano di interventi contro il dissesto idrogeologico. Un piano che prevede proprio un investimento di 10 miliardi e che potrebbe fare risparmiare molti più soldi negli anni a venire perché eviterebbe le conseguenze di frane, alluvioni e terremoti, che vengono sempre affrontate come emergenza. Ed esattamente 10 miliardi sono previsti anche per incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili: a parte i vantaggi ambientali, dal punto di vista economico il vero valore sono le migliaia di posti di lavoro che dovranno nascere. Questi sono solo un paio di esempi. Diciamo che, se il Governo si trovasse di colpo a dovere fare a meno di quella cifra, oltre a pensare di aumentare qualche tassa, con le difficoltà che già conosciamo, sarebbe costretto a incidere su qualche voce di spesa. E potrebbero farne le spese la sanità così come le infrastrutture”. Ma chi auspica l’eliminazione del gioco sostiene i giocatori investirebbero quello stesso denaro in altri beni di consumo. Peirone non è affatto convinto: “Basta vedere quello che è successo in Piemonte, dove la legge regionale ha di fatto espulso il gioco dai centri urbani e si è registrato un calo significativo delle giocate: i consumi non sono affatto aumentati in proporzione. Senza contare che nessuna attività è tassata come il gioco, che subisce un prelievo fiscale diretto di oltre il 50%. I 10 miliardi incassati dallo Stato lo scorso anno sono la quota di prelievo fiscale su una spesa effettiva di quasi 20 miliardi. La stessa cifra spesa in qualsiasi altro modo non porterebbe mai a quell’introito”.
Ma se è vero che il gioco è entrato nelle abitudini quotidiane degli italiani, vietarlo del tutto potrebbe cambiare anche la cultura del Paese?
A rispondere è Marco Pedroni, sociologo, docente all’Università Cattolica e all’università eCampus, e autore di alcune ricerche sui giocatori italiani. “Prendiamo in considerazione questa ipotesi solo per ragionare sugli scenari possibili, e non certo perché la consideriamo probabile. Comunque, personalmente non credo che l’eliminazione del gioco legale farebbe esplodere l’attività di malavita e mafie, anche se sicuramente tornerebbero fenomeni come la bisca nel retro del bar. Il primo scenario che posso immaginare è qualcosa di simile a quanto immaginato da Orwell con il suo 1984. Dovremmo mettere in piedi un apparato repressivo molto pervasivo. Che, peraltro, non potremmo permetterci, altrimenti l’avremmo già realizzato per altre emergenze più evidenti. E comunque un bando totale, oltre a essere un modo per chiudere gli occhi davanti a un problema, sarebbe un comportamento abbastanza problematico per la democrazia. Si rischierebbe di vedere poi utilizzare lo stesso approccio nei confronti anche di altre tematiche, come l’alcool e qualunque comportamento che susciti critiche. Si arriverebbe a una sorta di Stato etico. Ma c’è un’altra possibilità: che lo Stato, una volta varato il divieto, faccia finta di niente, com’è successo con le cosiddette case chiuse: il fenomeno prolifera come prima, ma senza controllo”. Nelle sue ricerche, Pedroni ha paragonato lo sviluppo del gioco in Italia alla vita di una persona, con infanzia, adolescenza ed età adulta. E se questa è l’età adulta del gioco, è il momento di ridimensionare gli eccessi tipici dell’adolescenza. Ovvero, il momento in cui lo Stato ha considerato il gioco un modo per fare cassa e ha aumentato l’offerta senza tenere conto degli effetti collaterali, per quanto limitati. “Sappiamo che la soluzione più sensata da percorrere sarà quella di un ridimensionamento dell’offerta” aggiunge Pedroni “considerando anche come la legislazione italiana sia comunque indicata come una tra le più equilibrate d’Europa. E poi cambiare approccio: quello che attualmente viene visto come un problema medico, andrebbe visto come un problema sociale. Gli eccessi di gioco sono un sintomo di una società disgregata. Bisogna, quindi, rimuovere le cause, combattere la disoccupazione, la solitudine. Ma questi sono temi che un politico difficilmente affronta perché non hanno un ritorno immediato in termini elettorali”.