UNA DONNA GUIDA IL POPOLO UIGURO CONTRO IL REGIME COMUNISTA CINESE

Può capitare di cercare nella mia biblioteca personale un libro e di non trovarlo. Finalmente l’altro giorno, guardando attentamente, l’ho trovato. Si tratta di «La Guerriera Gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese», testo di Rebiya Kedeer, scritto insieme a Alexandra Cavelius, pubblicato in Italia dalla casa editrice Corbaccio (2009, Milano).

Rebiya Kadeer, è una straordinaria donna, uigura, forse la più nota dissidente della Cina. In questo libro si racconta lei stessa, ne nasce un’autobiografia, una fotografia lucida e impietosa di un regime spietato come quello comunista cinese.

«Mi sono imbattuta in Rebiya Kadeer grazie a un breve articolo di giornale – scrive Alexandra Cavelius – Già dalle prime frasi si capiva che si trattava di una persona straordinaria che, oltre ai tibetani, c’era un’altra minoranza, poco conosciuta al mondo occidentale, nella fattispecie musulmana, che subiva la stessa, crudele repressione da parte del dominatore cinese».

In quasi quattrocento pagine Rebiya Kadeer, ci racconta il suo grande coraggio, lei donna uigura, nell’affrontare a testa alta l’ingiustizia di un regime di terrore, che ha colonizzato il proprio Paese, il Turkestan orientale, sinizzandolo, chiamandolo Xianjiang. Non si hanno tante notizie in Occidente sulle violazioni dei più elementari diritti umani della popolazione uigura, esiste poca letteratura, soltanto alcuni siti online come Bitter Winter o Asianews, ci informano sulla repressione del Partito Comunista cinese degli uiguri.

Questo libro doveva, poteva, contribuire a squarciare il muro di silenzio sulla resistenza degli uiguri, invece niente. Tra l’altro si registra un assordante silenzio nelle comunità musulmane, lo faceva notare in un post anche il calciatore origine turca, dell’Arsenal, Mesut Ozil, che ha puntato il dito anche contro la comunità musulmana mondiale, accusandola di rimanere in silenzio di fronte alle sofferenze del popolo uiguro: “I musulmani sono silenti, la loro voce non si sente”.

Sono quindici capitoli densi di notizie, di fatti, di lotte, di esperienze vissute dalla protagonista che racconta se stessa e il suo valoroso popolo. Rebiya inizia il racconto con una favola quella della formica, che nonostante la sua piccolezza è riuscita a superare ostacoli insormontabili come montagne, fiumi. «Non c’è ostacolo che non si possa superare, non c’è traguardo che non si possa raggiungere». E’ la sua storia, quella del suo popolo che ha conosciuto soltanto la sofferenza e il gioco delle potenze straniere.

«Abbiamo sempre subito la minaccia di persecuzioni, torture e omicidi».Ci tiene a precisare, «vengo da un paese che combatte da molto tempo per la propria indipendenza e la libertà, oggi più che mai. Parlo e combatto a nome delle moltissime persone che sono state private di ogni autonomia a livello culturale, economico e religioso […]»

Il mondo non conosce il Turkestan orientale, un territorio enorme, che equivale a circa cinque volte e mezzo l’Italia. I governanti comunisti cinesi, «fanno di tutto per isolare ermeticamente il nostro paese dal resto del mondo e bollare il nostro popolo come terrorista. Anch’io sono una terrorista, stando alle parole del governo cinese, che afferma lo stesso anche sul conto del Dalai Lama. Eppure mi limito a combattere con strumenti di pace, affinchè la vita della mia gente sia degna di un essere umano». Leggendo quello che ha dovuto subire nelle carceri, dagli aguzzini comunisti cinesi, l’umanità è scomparsa totalmente.

La Kadeer nei primi capitoli racconta come la Rivoluzione maoista ha imposto le sue teorie anche sul territorio abitato dagli uiguri, «nel giro di un anno il generale Wang Zhen si impegnò soprattutto nello sterminio di ricchi, intellettuali e oppositori. Chiunque si dichiarasse contrario alla sua riforma veniva messo al muro». Il programma di immigrazione di massa di cinesi han nello Xinjiang, è stato fissato nel 1950 da Mao in persona. Lo scopo era di porre le basi del socialismo che si offriva alla popolazione uigura. Adesso sono arrivati a sette, otto milioni di cinesi.

«Nel nuovo sistema comunista ognuno era controllore dell’altro: le persone venivano incoraggiate ad accusare gli altri […]».

Kadeer nel suo racconto ci svela diversi passaggi interessanti della politica maoista come quella nel 1957, di“far uscire allo scoperto i serpenti”. I serpenti erano gli intellettuali che venivano invitati a criticare il partito, rassicurati che non ci sarebbero rappresaglie. Invece non fu così, tutti sono stati dichiarati “deviazionisti”.

«Qualsiasi manifestazione di pensiero indipendente veniva considerata pericolosa. Nessuno dormiva più sonni tranquilli, perchè chiunque da un momento all’altro poteva essere tradito e definito nemico delle Stato. Tutti dovevano avere le stesse idee, dire le stesse cose […]».

Nei capitoli iniziali non mancano i riferimenti alle tradizioni, alla vita sociale del popolo uiguro, soprattutto quello che riguarda le donne, le loro condizioni. Tradizioni che la rivoluzione culturale ha distrutto, spezzando le relazioni tra la gente. Pertanto la Kadeer in questa autobiografia racconta quello che hanno scritto tanti altri autorevoli scrittori, in merito alle giovani guardie rosse con la fascia rossa. Questi giovani cercavano di eliminare, qualsiasi forma di autorità ereditata dal passato, tentando «di distruggere tutto quello che ricordava, anche solo vagamente, la tradizione cinese. Nessuno era al sicuro da quelle canaglie scatenate, neppure i funzionari del Partito. Scuole e università sospesero l’attività di insegnamento, gli studenti torturarono gli insegnanti. Nel Turkestan orientale gli uiguri furono le vittime prescelte dalla guardie Rosse cinesi».

Cadde vittima anche la stessa Kadeer considerata controrivoluzionaria, fu inserita nella “lista nera”, costretta a comparire di fronte a un’assemblea giudicante. Sono tanti gli episodi raccontati dalla nostra eroina uigura a cominciare dalle umiliazioni che erano costretti a subire, le varie “gogne” pubbliche, dove l’accusato veniva percosso, spintonato e sputacchiato. La Kadeer racconta molto della sua vita privata, del suo primo matrimonio con Abdirim, fallito dopo tredici anni, perchè il marito era diventato violento e quindi la picchiava.

«Per una donna uigura con sei figli era una follia separarsi dal marito». Eppure fu costretta a farlo, così rimase sola, rinunciando a tutto, e incominciando da zero, a farsi una nuova vita. Seguire il suo racconto è appassionante, a poco a poco raggiunse una posizione elevata sia economicamente ma anche politicamente, conosciuta e rispettata da tutti. Divenne una grande imprenditrice, una donna d’affari, riuscì a vendere di tutto, trafficando e instaurando rapporti commerciali con diversi Paesi e naturalmente con i grandi centri di Shanghai o di Canton. Creò un grande Bazar , denominato “delle donne”, nel centro della capitale a Urumqi. «Il mio non era un semplice centro commerciale: ero sicura che avrebbe riscritto la storia degli uiguri […] L’edificio dava di me l’immagine che desideravo trasmettere al popolo, incarnava la forza e lo spirito con cui resistevo ai nostri nemici […] avevo eretto un simbolo, un simbolo che rappresentava la mia forza di volontà e al tempo stesso il fatto di una donna uigura avesse potuto realizzare ciò che non era riuscito a un uomo». Grazie a questa determinazione, ben presto divenne milionaria. Addirittura a pagine 236, si descrive quasi come una regina, tanto che il governo comunista ora voleva trarre vantaggio dal credito di cui godeva.

Con la stessa determinazione è curioso come riuscì a conoscere il suo secondo marito, Sidek Rouzi, da cui ha avuto altri cinque figli. Sidek fu letteralmente scelto da Rebiya proprio perchè era stato imprigionato ed aveva sofferto molto nelle carceri comuniste.

Non è stato facile realizzare i suoi progetti. La kadeer lo scrive chiaramente: «[…] le donne uigure erano convinte di dover stare a casa con i bambini, davanti ai fornelli. Le giovani donne che dopo il matrimonio uscivano di casa per lavorare erano tacciate di negligenza e immoralità. Ma da quando ero riuscita a farmi un nome le donne avevano cominciato a credere che anche loro potevano raggiungere i propri obiettivi. La mia fu una grande riforma sociale». Del resto amava ripetere: “soltanto chi non si piega impara a camminare dritto”. Come quando le funzionarie del governo cinese, quelle del controllo delle nascite, volevano farla abortire. Lei naturalmente difese con determinazione la sua gravidanza, poi come punizione per quel parto non consentito, «le autorità tolsero a mio marito il titolo di assistente universitario. Il suo stipendio fu declassato di due livelli. Dovette pagare una multa di 2000 yuan, mentre da me ne pretesero 50.000». La Redeek scrive che «tanto gli uomini quanto le donne sono sottoposti alla sterilizzazione. I medici dell’Ufficio per il controllo delle nascite hanno il compito di uccidere i bambini che eccedono il numero fissato».

Tuttavia la Kadeer grazie al suo status raggiunto è arrivata a diventare parlamentare, così si è trovata a partecipare al Congresso nazionale del popolo dell’intera Cina. E qui Rebiya Kadeer non si lasciata sfuggire l’occasione di denunciare tutte le ingiustizie che regnavano nello Xinjiang, a cominciare dalla corruzione, della pressione fiscale, delle discriminazioni del popolo uiguro rispetto ai cinesi. Addirittura nel 1995 i funzionari del Partito la inviarono a partecipare alla IV Conferenza mondiale delle donne delle Nazioni Unite.

Ma ben presto i governanti cinesi non sopportarono più le denunce della Kadeer e persero la pazienza e incominciarono a minacciare l’eroina del popolo uiguro. La situazione si aggrava, continuano i processi e le esecuzioni pubbliche dei prigionieri delle carceri, con la scritta “Separatista”. A scuola, nelle università, la situazione diventa insopportabile per Sidek non resta che la via dell’esilio negli Usa, insieme ai figli.

Intanto si registrano rivolte, come quella di Ily, qui i manifestanti invocano l’indipendenza, “lasciateci vivere come persone”, gridavano. 500.000 soldati sono stati convocati dal governo per reprimere la rivolta. I loro proiettili hanno falciato donne, vecchie e bambini. La documentazione della repressione è stata requisita dalla polizia comunista. In seguito i mezzi di comunicazione di Stato dissero che rivolta era stata provocata da alcuni criminali uiguri. Questa rivolta alcuni l’hanno paragonata a quella di piazza Tian An Men. «I governanti amavano organizzare simili processi all’interno di grandi sale o sulle pubbliche piazze antistanti i palazzi di rappresentanza, allo scopo di incutere paura nel popolo. I soldati trascinavano i prigionieri sul palco, per poi caricarli di nuovo come sacchi di immondizia sul furgone al termine dell’udienza».

Dopo l’ennesima denuncia della Kadeer, viene privata del suo passaporto e dagli incarichi pubblici e proprio mentre doveva incontrare una delegazione americana, il 6 agosto 1999 viene arrestata. Rinchiusa nel carcere di Liudaowan, dove i prigionieri morivano o diventavano pazzi, inizia il suo calvario nelle carceri comuniste, durato quasi sei anni. Kadeer nel libro racconta tutto quello che ha subito, ma anche quello che ha visto e ascoltato. Praticamente si ripete quello che si assisteva nelle altre carceri comuniste, tipo quelle che ha raccontato Armando Valladares, nelle carceri cubane di Fidel Castro o quelle dei gulag sovietici raccontate da Aleksandr Solzenicyn o quelle rumene di Ceausescu, o di tanti altri che hanno subito la “rieducazione” comunista.

I racconti di Rebiya sono raccapriccianti, torture, intimidazioni, violenza verbali e psicologiche; le 58 regole del carcere che bisogna imparare a memoria e poi i continui interrogatori, senza dormire, che durano tutta la giornata, le continue punizioni, privazioni, l’isolamento. Poi grazie alla pressione americana, del Congresso e della sensibilizzazione che veniva fatta dal marito Sidek, finalmente Rebiya Kadeer, ormai diventata scomoda per il regime cinese, veniva liberata il 17 marzo 2005. Viene accolta festosamente a Washington, ma la storia non finisce, la Kadeer ha dovuto lasciare come pegno in Cina alcuni dei suoi figli, che vengono continuamente sorvegliati e capita di essere vessati dalla polizia ogni volta che la madre manifesta per il popolo uiguro.

A conclusione del libro, già allora, la giornalista Cavelius poteva scrivere che «Le descrizioni di Rebiya Kadeer mostrano l’altra faccia della Cina, il lato oscuro di una potenza il cui influsso a livello mondiale sta crescendo in maniera inarrestabile. Per questo è sempre più necessario accelerare il dibattito sui diritti umani in Cina».

Tuttavia l’attenzione sul popolo uiguro continua, almeno per quanto riguarda il sito Bitter Winter, avevo intenzione di fare riferimento all’intervista a Zubayra Shamseden, coordinatrice del Dipartimento per la Cina dello Uyghur Human Rights Project (UHRP) , lo farò in qualche altra occasione.

DOMENICO BONVEGNA

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