È indispensabile un piano di rilancio per le università siciliane”. Lo dice il segretario generale della Flc Cgil Sicilia, Adriano Rizza, commentando la Classifica Censis delle università italiane che vede Catania e Messina agli ultimi posti dei grandi atenei statali, Palermo al terz’ultimo posto dei mega atenei statali e la Kore di Enna al penultimo posto dei piccoli atenei non statali. Tale classifica prende in considerazione i seguenti indicatori: servizi, borse, strutture, comunicazione e servizi digitali, internazionalizzazione e occupabilità.
“Esiste un gap insopportabile – argomenta– tra Nord e Sud. Non possiamo tollerare che gli atenei siciliani continuino a versare in queste condizioni. Servono più risorse per migliorare ed implementare le infrastrutture e i servizi, per mettere il personale nelle condizioni di lavorare al meglio e offrire agli studenti servizi di qualità”.
“I nostri giovani – conclude Rizza – devono poter studiare in università con gli stessi standard qualitativi delle università del Nord. Ancora oggi, invece, continuiamo a vedere ogni anno migliaia di studenti costretti a completare il loro percorso di studio in altre università italiane o estere, perché quelle siciliane non offrono le stesse opportunità. Non siamo contrari alla mobilità, ma questa deve essere una scelta e non una costrizione”.
“Puntuale – aggiunge Katia Perna, segretaria regionale della Flc Cgil – arriva la certificazione delle difficoltà degli atenei del Sud e di quelli siciliani in primis. Quella che invece non arriva è una riflessione seria e articolata sulle cause che determinano questi risultati. Non ci appassionano le classifiche, ma certo di fronte al crollo delle immatricolazioni al Sud, alla difficoltà dei settori umanistici, alla netta demarcazione tra Nord e Sud del Paese, riteniamo urgente chiedere un cambio di direzione. Non è accettabile che si sposti l’attenzione sugli studenti, da ultimo invitati dal direttore del Censis Valeri a essere ‘anticonformisti’ e a scegliere l’università come atto di ‘ribellione’, ‘senza gettare la spugna’, invece che affrontare i problemi con riferimento al contesto economico-sociale e alle scellerate politiche universitarie dell’ultimo decennio”.
“Servono borse di studio e servizi – conclude – porre fine al precariato, ma occorre anche certificare una volta per tutte il fallimento dell’università prodotta dalla legge 240/2010, che invece di promuovere ‘talenti’ e favorire la ‘meritocrazia’, ha tagliato fuori i più deboli e i più poveri e ha perso quel ruolo propulsivo, sia sul piano sociale sia sul piano culturale, che le ha permesso di essere per decenni un ascensore sociale e uno strumento di democrazia”.