Un tempo era il bar, tra un caffè e una grappa si facevano battute che erano prese per vere e, riportate al altri con relative aggiunte, costituivano l’insieme divulgativo nella comunità.
Oggi ci sono i social media, ma il meccanismo disinformativo è lo stesso, con aumento della diffusione di quelle che vengono definite notizie false (fake news), post- verità e bufale (ci scusino i bovini per l’uso improprio).
Un’indagine di Reuters Institute for the study of Journalism rileva che, chi è connesso, usa Facebook a stragrande maggioranza e la metà lo utilizza come fonte di notizie.
Un notissimo sito elenca le notizie false che sono pubblicate sui social media (anche sui giornali). E’ impressionante il numero di bufale che ci sono propinate: dai ladri che sono risarciti e le vittime che vanno in galera, agli immigrati che distruggono l’albero di Natale, agli immigrati che spengono le cicche nel piatto di spaghetti offerto da un centro di accoglienza (al grido "mentre 7 milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà"), alla partecipazione ai funerali di Totò Riina della Boldrini e della Boschi. Insomma, ce n’è per tutti.
Purtroppo la disinformazione è, come si suol dire, virale, e moltissimi cadono in inganno. Vero è che ognuno ha diritto all’imbecillità, ma quel che ci preoccupa di più sono le mezze verità, le insinuazioni e i processi mediatici contro i quali il cittadino, chiunque esso sia, difficilmente può difendersi. In questo sono campioni i cosiddetti talkshow.
Per gli utenti un rimedio, parziale, ci sarebbe. A ogni notizia che suscita la nostra indignazione dovremmo aggiungere una considerazione: chi ci guadagna? Perché maggiori sono gli ascoltatori televisivi, o i seguaci sui social media, maggiori sono i guadagni dei gestori.
E’ una considerazione che vale come vaccinazione.
Primo Mastrantoni, segretario Aduc