di Diego Costa
C’era una volta una bella squadra in serie A, fatta di campioni con diverse età, con in panchina un uomo dal carattere difficile, così dicono, per me no, che li trattava come figli usando carota e bastone, mandando dietro la lavagna, cioè in panchina, il primo che sgarrava, che non rispettava un movimento, che s’impigriva, che non capiva come da quelle difese sudate scaturissero poi le più belle vittorie. Questa squadra di provincia aveva giocatori che insieme erano una forza, e da soli avevano caratteri molto diversi. Orazio per esempio. Rispondeva esattamente al suo cognome, Rustichelli. Silenzioso, apparentemente spinoso, falsamente distaccato. Poche parole, molti fatti. Reggiano in tutto e per tutto. Non potente, eppure volava. Poi c’erano grandi vecchi, Pino e Bob. E c’era lui, il Papero, un predestinato: Piero Montecchi. Uno che, qualsiasi fosse stata la disciplina sportiva che avesse deciso di seguire, avrebbe sfondato. Uno nato con la stoffa. Forse un po’ pigro, così spesso e volentieri nel mirino del Cerbero coach, il Dado. Un giorno io e il Papero ci vedemmo per un’intervista a un pub sotto la redazione del Carlino. Mi raccontò che aveva cominciato con il calcio. "E giocavo bene. Ma poi decisi di scegliere il basket". Perchè il 14, Piero? Rispose con netta e univoca decisione: "Perchè con quel numero ho visto giocare il migliore. Il migliore di tutti: Johann Cruyff".
Incontrai poi, dopo i trionfi di Milano, il Papero in una partita benefica di calcio. Scoprii il suo talento, mi colpì molto. Aveva davanti a sè giovani campioncini in crescita del Bologna Primavera, Andrea Tarozzi e Michele Nesi (uno che senza un caratteraccio avrebbe fatto parlare molto di sè). Lui era calcisticamente al loro livello. Un grande il Papero. Questo è un piccolo omaggio a un grande fan, un amico che so in America. Un modo diverso, ma ugualmente affettuoso, di ricordare l’olandese che volava col pallone ai piedi.