DONNE AFGHANE, QUANDO LO SPORT È SINONIMO DI LIBERTÀ. Le CALCIATRICI DELLA SQUADRA FEMMINILE DI HERAT E LE ALTRE ATTIVITSTE MINACCIATE…
Hanno i volti stanchi ma fieri di chi è riuscito a sfuggire a un pericolo troppo grande, per sé e per le proprie famiglie. Le ragazze della squadra femminile di Herat accolte oggi a Firenze a seguito dell’evacuazione organizzata dal COSPE, raccontano come era la loro vita prima di agosto 2021. Prima dell’ultima crisi politica e il ritorno del regime talebano, l’appuntamento era fissato per le cinque e mezzo del mattino. Si allenavano di buon’ora per evitare il caldo e non dare troppo nell’occhio e perché le altre ore erano riservate ai maschi”, aggiunge Maryam in tono rassegnato. Lei e le altre compagne alle prime luci dell’alba si presentavano puntuali allo stadio comunale di Herat: scarpe da ginnastica, capelli avvolti nell’hijab, magliette lunghe e calze a coprire le ginocchia. Una ventina, tra i 16 e i 22 anni. Tutte studentesse, si riunivano prima dei corsi in questo grande stadio deserto due o tre volte alla settimana, per allenarsi e praticare lo sport che amano più di qualsiasi altra cosa: il calcio.
Intorno a loro, c’era l’allenatore Najibullah Nawrozi, un uomo dagli occhi di ghiaccio e i modi apparentemente bruschi, che le ragazze adoravano come un padre: le incitava a scaldare i muscoli, a fare stretching, a saltare gli ostacoli e a lanciarsi sul pallone. Loro eseguivano, faticavano e sudavano, ma si divertivano.
ALLENAMENTO SEMICLANDESTINO
“Per me il calcio è come l’ossigeno. Non potrei farne a meno”, dice ansimando Susan, 22 anni, che gioca nel ruolo di difensore e corre come una pazza dietro la palla. “È nutrimento per la vita, come il cibo o l’acqua”, le fa eco la centrocampista Fatima, di 19 anni.
Dopo una lunga sessione di riscaldamento, veniva approntata la partitella di metà allenamento. Alcuni ostacoli mobili erano usati come pali per segnare le porte perché alle ragazze non era permesso giocare sul terreno vero e proprio: sia il match sia l’allenamento si svolgevano in uno spazio dietro la rete, a bordo campo. “Non avevamo gli scarpini e non ci facevano stare sul manto erboso. Lo stadio era nuovo e scintillante. Il prato, curatissimo. Rinnovato con fondi di donatori internazionali – in parte anche della cooperazione italiana, come indica una targa proprio all’ingresso – l’impianto era però per lo più destinato ai maschi. Relegate a giocare a queste ore antelucane in uno spicchio del campo, le ragazze sembravano far parte di una squadra semiclandestina. E in un certo senso era proprio così. “Convocavamo gli allenamenti via sms. E ogni volta cambiavamo il giorno. I talebani e gli altri islamisti radicali odiavano – già prima del ritorno del regime – quello che facevamo e, dunque, preferivamo non esporci troppo” affermano nel video realizzato da Stefano Liberti e Mario Poeta, Herat Football Club.
SPORT, VEICOLO DI LIBERTÀ
L’allenatore Najibullah era il capo del comitato sportivo di Herat. Allenava sia le squadre maschili sia quelle femminili. Diceva di svolgere il doppio incarico con uguale entusiasmo, ma vedere queste sue allieve correre dietro il pallone sembrava dargli un senso di felicità e di fierezza estrema. “Siamo amanti della libertà”, diceva con gli occhi che brillavano. “Lo sport è un veicolo per la libertà”.
Durante il regime dei taliban, dal 1996 al 2001, quando alle donne era perfino vietato andare a scuola o uscire di casa da sole, gli sport erano banditi per tutti. Dopo averli definiti “antislamici”, il regime oscurantista aveva deciso di utilizzare gli stadi per le esecuzioni pubbliche. Poi dal 2001, nel nuovo Afghanistan, gli impianti erano tornati alla loro funzione originaria e il calcio aveva cominciato a diffondersi anche tra le ragazze. Un fenomeno del tutto nuovo e in crescita: c’erano più di mille giocatrici registrate nelle federazioni attive in sei province del paese; c’era un campionato e anche una nazionale femminile che ha partecipato negli ultimi anni a qualche torneo internazionale.
SENZA DOVERSI NASCONDERE
“Non era l’hijab o la calza lunga il problema. Piuttosto, il fatto di non poter giocare liberamente. A volte era come se avessimo dovuto nasconderci”, lamenta Maryam.
Tutte sognano oggi – ora che si trovano al sicuro in Italia – di poter un giorno partecipare a tornei agonistici. Di confrontarsi con altre squadre. “Quando abbiamo giocato contro l’Italia è stato divertentissimo”, dice una di loro, mostrando le foto dell’evento sul cellulare. Si riferisce alla partita che hanno disputato contro le soldate italiane del contingente Isaf, all’interno della base di Camp Arena. “È stato un giorno di festa. Non solo perché la nostra squadra ha vinto, ma perché abbiamo mostrato al mondo che un altro Afghanistan è possibile”, dice ancora Susan.
Oggi tutte queste conquiste, faticosamente raggiunte tra mille difficoltà, non esistono più in Afghanistan.
Con il ritorno dei talebani al potere, queste fortunate calciatrici – grazie all’impegno di COSPE – sono potute fuggire e venire in Italia, insieme ad altre sportive, pallavoliste, cicliste e altre attiviste, avvocate, insegnanti giunte in Italia e ora libere di studiare, giocare ed esprimere loro stesse. Ma, purtroppo, molte altre ragazze e bambine sono rimaste in patria, vittime silenziose di un regime oscurantista. Quelle che si sono maggiormente esposte e hanno lottato per i propri diritti e per un Afghanistan democratico sono quelle che rischiano adesso di più, costrette a nascondersi ogni notte in una casa diversa e ad accettare di uscire sempre accompagnate da un maschio, anche solo per fare la spesa. Le scuole sono state chiuse per le ragazze e il futuro negato a migliaia di loro.