Non credo ci potesse essere uno sport sconosciuto a Rino Tommasi. Praticamente lui era un’enciclopedia vivente, un volume umano di dati, di date, di ricordi, impressi in un pc portatile di immenso valore.
Ai più non sarà noto il nome di Jock Solomons, detto l’Imperatore, promoter di pugilato di prima grandezza (21 i mondiali da lui organizzati, oltre a migliaia di riunioni dal Dopoguerra all’età dell’oro), un inglese che sognava di vedere un britannico campione del mondo dei massimi (o magari il suo preferito, il mediomassimo Freddie Mills) ma non riuscì a vedere realizzato il suo sogno.
Solomons prese sotto la sua ala protettiva un giovane e promettente veronese, sincero e appassionato, che imparò da lui il mestiere dell’organizzatore.
Siccome Solomons aveva a che fare con un altro grandissimo organizzatore di “special events” quale era Levi Della Vida, mi viene da pensare che fu allora che Rino che amava la boxe cominciò ad amare anche il tennis.
Poco prima della finale del 1957, era un tennis differente, soprattutto perché non professionistico, il nostro Rino entrò in campo con il finalista, il canguro Ashley Cooper, sconfitto poco dopo da Leo Hoad.
A quei tempi, insomma, un inviato poteva pure palleggiare con un asso.
Fu proprio Rino a raccontarcelo, a margine di una partita di tennis nella semifinale di Coppa dei Giornali che giocammo, io e Carlo Annovazzi, contro Filippo Grassia e, appunto, Rino.
Si notava l’impostazione di un bel giocatore, in lui, ma era già evidente la fatica e l’impossibilità di piegarsi. Certo non potevamo immaginare l’evolversi della malattia in lui.
Una decina di anni dopo, Gianni Clerici girava per il Foro Italico avendo però perso l’allegria dei tempi migliori. Perché soffriva l’assenza del suo compagno di doppio ideale: Rino Tommasi. Erano davvero la coppia ideale. Il primo, capace di colpi estrosi, inattesi, geniali. L’altro il manuale fatto persona, il rigore professionale dell’aggiornarsi, del non lasciare nulla al caso, del sapere sempre tutto, di tutti.
Così, quel mix, lo abbiamo amato: a seconda della nostra indole, più l’uno dell’altro, forse, ma comprendendo pure che per fare 90 gradi abbiamo bisogno di due angoli perfettamente complementari.
Loro lo erano.
Li penso di nuovo assieme.
Ma ricordando Rino, sarebbe riduttivo soffermarsi solo al tennis e alla boxe, che pure hanno affollato di più la sua mente, collegata al cuore. Perché Rino era un super giornalista anche di altre discipline di sport americano. E certamente avrebbe con competenza affrontato discussioni in merito all’atletica e al calcio stesso.
E’ stato un direttore di testate atipico, perché lavorava il doppio. E si documentava su tutto. Da direttore di SuperFootball, mensile di football americano degli anni d’oro dello sport in Italia, gli Early 80ies, ricevetti una lettera di Tommasi – un elefante che scrive a un topolino – per rettificare una nostra affermazione circa il football trasmesso da Canale 5. Credo che Rino fosse il capo dello sport della televisione del Cavaliere, in quel momento.
Quel giorno, allo Sporting di Roma, emozionato per averlo davanti a me, oltre la rete, provai un servizio. E sentii quella voce unica e riconoscibilissima: Ma chi è? Sampras?
Anche solo per un colpo, il più grande mi aveva paragonato all’immenso Pete. Mi tolsi la fascetta dai capelli e la consegnai al capitano non giocatore. “Hai capito cosa è successo? – gli dissi – “quello lì”, non uno qualsiasi, anche solo per un colpo, mi ha paragonato a Sampras. Non posso aspirare a qualcosa di più”. E gli consegnai la racchetta.
Ciao Rino, immenso, inarrivabile maestro. Hai insegnato la grandezza esponenziale dell’umiltà, sei stato l’esempio lucido di come si fa il mestiere.
Documentandosi sempre, e prima.
Come ha scritto Riccardo Crivelli: ciao Rino, non saremo MAI alla tua altezza.
Diego Costa