È morto Franco Chimenti. Scommetto che tutti quelli che ne parlavano male per qualche giorno si terranno le proprie idee. Ah già, dei morti non si parla male. Quindi al funerale mi aspetto una piccola folla di paraculi, con lacrima d’ordinanza. Ci saranno pure quelli che, come Don Chisciotte, nel tempo hanno tentato sciagurati assalti nella speranza di farlo precipitare dalla sella. Mission impossible. Perché Franco, prima ancora d’essere un professore universitario e un dirigente sportivo di indubbio successo, era un animale politico, capace di disegnare su un’immaginaria lavagna tutti gli scenari possibili e di preparare le contromosse.
Roma è da amare e da odiare. Chimenti si limitava ad usarla. Nei palazzi e nei salotti dove si decidono le cose lui c’era. Lì tra ministri, sottosegretari e nobildonne ha imparato che cos’è la vera politica, una specie di droga, nella quale sapeva muoversi con indubbia abilità. Lui ascoltava, capiva e fiutava. Vi posso assicurare che quasi sempre una sua confidenza era una specie di anticipazione della rassegna stampa dei giorni a venire. Tutto accadeva, come mi aveva sussurrato.
Ma Roma è anche un labirinto. Si sono persi in tanti. Capitò perfino a personaggi scafati come Berlusconi, quando cominciò a frequentarla. Franco riuscì a non perdersi perché seguiva la propria bussola che aveva un unico obiettivo: il potere. Che non è una cosa brutta. È brutta solo per chi non riesce mai ad afferrarlo. E lui l’ha sempre tenuto ben stretto, come hanno dimostrato le recenti elezioni stravinte per l’ennesima volta.
Potrei e vorrei dire ancora molto di quest’uomo che se n’è appena andato. Ma a questo punto è doveroso lasciare sui tasti l’affetto e le emozioni e provare a fare un bilancio della sua lunghissima presidenza alla Fig. Io gli riconosco d’essere stato protagonista di due imprese. La prima impossibile e incredibile: la Ryder Cup a Roma. E l’ha fatto alla faccia di tutto il microscopico mondo del golf che non ci credeva. E ha sperato fino all’ultimo in un suo fallimento. Piccola gente, si dirà ora. Solo per questo nessuno potrà non ricordarlo come un grande presidente.
L’altra impresa è stata tenere in vita il golf italiano. Che è come un morto che cammina. Da oltre quarant’anni gioco (male) a golf e sento proposte e progetti irrealizzabili per raddoppiare, ma che dico?, triplicare il numero degli iscritti alla Federazione. Utopie che non tengono conto, proprio perché utopie, della realtà. S’è provato in ogni mondo. Perfino raccontandoci delle balle e credendo che ci fossero centomila iscritti. Anche l’ottima idea importata in Italia dal mio amico Camicia, il tesseramento libero, contestata da molti circoli, alla fine ha prodotto piccolissimi numeri.
Non c’è niente da fare. Agli italiani il golf non piace. Anche perché è un gioco costoso, va ricordato. Se ancora si regge in piedi è grazie a quei presidenti che riescono a gestire il proprio circolo come un’azienda. Franco Chimenti nulla avrebbe potuto fare di più, credo. Ed è un miracolo che un golf piccolo piccolo abbia prodotto grandi campioni che ci hanno fatto e fanno fare bella figura nel mondo.
E, ora, dopo i funerali, ricominciate a parlarne male. Ma difficilmente il nostro golf potrà contare su un presidente bravo come Franco Chimenti.
Nicola Forcignanò