Presso la casa del quartiere Cecchi Point, il Comitato Uisp ha concluso da poco le attività che hanno avuto al centro la multiculturalità…
Il progetto Uisp, Un, Due, Tre Sport!, finanziato da Sport e Salute Spa in collaborazione con il Dipartimento per lo Sport / Presidenza del Consiglio dei ministri, promuove le attività motorie per la fascia giovanile per contrastare, prevenire e ridurre la sedentarietà, l’obesità, l’isolamento e il disagio psico-sociale. Proprio su quest’ultimo punto si sono concentrate a Torino le attività sportive gratuite del progetto, dove alla Casa del Quartiere Cecchi Point più di 20 ragazzi/e, di differenti comunità straniere, hanno potuto provare attività di calcio a 5.
A guidarci in questo nuovo focus è Matteo Mastorci, operatore Uisp, che ha seguito le attività partite a inizio giugno e terminate nelle prime settimane di ottobre. “Un, Due, Tre Sport ha avuto una natura multiculturale perché nessuno dei partecipanti era italiano. Il progetto si è svolto presso la Casa del quartiere, struttura situata nel quartiere Aurora caratterizzato da una forte impronta multietnica che si è sviluppata nell’ultimo periodo. Come Uisp Torino siamo entrati in contatto con la struttura attraverso alcuni progetti di attività sportive organizzate nel 2022 e a maggio è stato inaugurato un campetto da calcio a cinque sintetico dato in gestione a diverse realtà territoriali”. Successivamente all’inaugurazione il campo è stato utilizzato in maniera libera ma con il tempo diverse sono state le difficoltà avute dai ragazzi che, senza istruttori, giocavano in maniera molto disordinata.
“Siamo quindi entrati in contatto con le realtà che gestivano il campo – spiega Matteo – e facendo coprogettazione insieme abbiamo deciso di organizzare il progetto Un, Due, Tre Sport con un corso di calcio a cinque, completamente gratuito, inserendoci in alcuni orari che risultavano scoperti”. Dopo un’attenta osservazione nei mesi di aprile e maggio, gli operatori del Comitato Uisp di Torino hanno realizzato che la più grande difficoltà era l’organizzazione. “I ragazzi si presentavano al campo e giocavano con le loro regole, una tra tutte quella del chi vince regna, costringendo altri partecipanti ad aspettare ore prima di scendere in campo. Quindi quando siamo arrivati, abbiamo strutturato l’attività con una prima parte di allenamento seguita dalle partite, dividendo le attività per i piccoli all’inizio e per i più grandi dopo. Abbiamo anche organizzato diversi tornei chiamando squadre dall’esterno per far conoscere la nostra realtà”.
Diverse le comunità straniere che hanno preso parte al progetto. “I partecipanti erano soprattutto ragazzi della comunità senegalese di Torino – commenta Matteo – con qualche partecipante proveniente dalla Nigeria e dal Camerun. Un altro gruppo poi era formato da ragazzi di origine marocchina e tunisina. La maggior parte delle conflittualità avute sul campo era tra le comunità nord africane e quella senegalese che era in maggioranza”. L’approccio iniziale è stato molto complesso, gli operatori hanno dovuto lavorare molto per far capire ai ragazzi l’importanza di alcune regole per poter fruire meglio del campo da calcio a cinque. “Il nostro obiettivo era quello di impostare un’attività a cui potessero partecipare tutti, ma senza stravolgere il loro modo di giocare. Dovevamo far capire l’importanza di avere un campo nuovo dove poter giocare, completamente gratuito, e del rispetto verso lo spazio”.
I ragazzi tendevano a trattare male il campo: facevano buchi nella rete e tiravano pallonate alla struttura che lo circondava. “Abbiamo lavorato molto – racconta Matteo – educandoli al rispetto dello spazio pubblico facendo capire che erano proprio loro che ne usufruivano. Quindi piano piano abbiamo insegnato loro delle piccole regole, come l’utilizzo delle scarpe all’interno del campo. Molto spesso giocavano con le calze o le ciabatte e siamo riusciti con il tempo a insegnare una cultura diversa per praticare sport”. Nonostante le difficoltà iniziali quindi, i ragazzi hanno incominciato a capire tutti i piccoli insegnamenti dati da Matteo e gli altri operatori Uisp e come usufruire di uno spazio gratuito in maniera corretta. “Non tutti sono riusciti a capirlo, ma la stragrande maggioranza si, e per noi è stata una soddisfazione”.
Una relazione inizialmente complessa, quella tra operatori e partecipanti, con l’obiettivo di immedesimarsi con i ragazzi del quartiere ma che con il tempo si è trasformata in un buon rapporto e l’arrivo al campo si è evoluto in un evento positivo. “Durante le prime lezioni non abbiamo provato ad imporre il nostro modo di giocare – commenta Matteo – abbiamo fatto svolgere allenamenti classici in cui i ragazzi continuavano in parte a giocare nel loro modo. Successivamente abbiamo provato a imporre la nostra metodologia e questo ha portato a qualche momento conflittuale tra di noi. Con il tempo però i partecipanti hanno capito che quello che proponevamo andava a loro favore e che era fatto per il bene generale”.
Come si sono interfacciati i ragazzi durante l’attività? “Lo sport, e in particolare il calcio, è un linguaggio universale e questo ha aiutato. Inizialmente – sottolinea Matteo – si erano creati dei gruppetti, divisi per nazionalità. Il gruppo dei senegalesi era in maggioranza e gli altri, soprattutto la comunità marocchina, faticavano a giocare perché molte volte non riuscivano a formare una squadra. Quello che abbiamo provato a fare è stato azzerare completamente queste difficoltà mescolando le squadre, e in parte ha funzionato”.
Il percorso seguito dai partecipanti è stato sicuramente di crescita e integrazione. Alla fine del progetto infatti, Matteo e gli operatori sono rimasti soddisfatti dell’attività messa in piedi e allo stesso tempo delusi per non essere riusciti a coinvolgere tutti i partecipanti. “Alla fine però – spiega Matteo – la stragrande maggioranza dei ragazzi è cresciuta nel giocare e nell’intendere il gioco attraverso il rispetto per l’avversario, per il compagno e per noi”.
“La cosa che mi è rimasta più impressa – conclude Matteo – è che, dopo le prime volte che andavamo, i ragazzi hanno cominciato a riconoscermi anche fuori dal contesto sportivo (io abito là vicino) e incontrandoli per strada tuttora mi salutano, mi sorridono e sono molto contenti di vedermi. Questa loro confidenza, avvenuta in veramente poco tempo, mi ha particolarmente colpito e anche il fatto che ci hanno riconosciuto come figure positive è stato molto significativo”.
di Sergio Pannocchia