Il lavoro è una realtà in costante movimento e influenzata dalle tecnologie e innovazioni che richiedono nuove figure e competenze. Ma oggi anche lo stile e soprattutto le prospettive di vita influenzano le scelte dei lavoratori, che sono animati verso nuove priorità e un rapporto più equilibrato tra tempo di vita e di lavoro.
L’indagine condotta dall’Eurispes e contenuta all’interno del Rapporto Italia 2024 ha voluto esplorare alcuni fenomeni del mondo del lavoro, in primis il nomadismo digitale, di quanti cioè abbandonano i tradizionali luoghi fisici del lavoro per vivere una vita senza vincoli e con maggiore libertà, spesso spostandosi da un paese all’altro. È stata analizzata anche l’opinione dei lavoratori in merito alla possibilità di lavorare dall’estero o in condizioni precarie o poco sicure.
Nel 2023 hanno lavorato da remoto 3,58 milioni di italiani
Il nomadismo digitale è una componente della diversificazione lavorativa di oggi, una realtà legata allo smart working sulla quale non ci sono visioni univoche o definitive. Se da un lato, dal 1 aprile 2024 siamo ritornati alle regole pre-Covid sullo smart working per i dipendenti, dall’altro i dati indicano una situazione in crescita. Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il lavoro da remoto nel nostro Paese si consolida e continua a crescere, sia nelle grandi che nelle piccole e medie imprese: nel 2023 hanno lavorato da remoto 3,58 milioni di italiani, un dato in crescita, anche se di poco, rispetto al 2022 (3,57 milioni) e indubbiamente superiore al periodo pre-pandemico (+541%). I risultati dell’indagine indicano che il 9,1% degli italiani, meno di 1 su 10, lavora interamente da remoto in una località diversa da quella dove ha sede la sua azienda e un 38,3% conosce persone che lo fanno. L’8,2% del campione spiega di aver lasciato il lavoro che svolgeva per privilegiare la propria qualità della vita e le proprie inclinazioni – ad esempio, avere più tempo libero, dedicarsi ai propri hobby, interessi e affetti. Il 28,5% ha almeno un parente, amico, conoscente, che ha fatto questa scelta. Il 63,3% non ha alcuna esperienza di nomadismo digitale, né diretta né indiretta. Il 5,2% del campione nel corso dell’indagine ha riferito di aver lasciato definitivamente il lavoro per la nascita di un figlio; molti di più, il 31,2%, conoscono qualcuno che lo ha fatto. Per il 6,7% la rinuncia a lavorare conseguente alla nascita di un figlio è stata temporanea; il 36,6% ha parenti, amici o conoscenti che hanno smesso di lavorare per qualche tempo.
Il 5,2% del campione ha lasciato definitivamente il lavoro per la nascita di un figlio
Quasi la metà dei lavoratori italiani (47,3%) ha valutato, più o meno concretamente, l’eventualità di un trasferimento lavorativo in un paese straniero; in particolare, il dato si divide tra chi ci ha pensato ma alla fine ha deciso di non farlo (16,2%) o non ha potuto farlo (14,9%), chi lo ha fatto per un periodo (quasi un decimo, 9,9%), chi, infine, ha intenzione di farlo in futuro (6,3%). Sono soprattutto i laureati ad aver considerato l’ipotesi di lasciare l’Italia per lavorare fuori dal Paese (non ci ha mai pensato la minoranza, 44,8%). La ragione che avrebbe spinto quanti hanno pensato di andare a lavorare all’estero è stata la possibilità di poter ottenere migliori condizioni economiche (28,2%). Seguono: conseguire più sicurezza e stabilità lavorativa (17,8%), avere più possibilità di trovare lavoro (17,5%), perché all’estero ci sono maggiori opportunità di crescita professionale nel settore di interesse (16,2%) e, con valori minori, perché un’esperienza professionale all’estero rende più competitivi sul mercato del lavoro (11,9%) o, infine, altri motivi (8,3%).
Quasi la metà dei lavoratori italiani ha valutato l’eventualità di un trasferimento lavorativo in un paese straniero
La maggioranza degli intervistati che lavorano attualmente o hanno lavorato in passato (59,5%) afferma di non aver mai lavorato senza contratto. Tra questi, il 38,2% non accetterebbe di farlo, il 21,3%, al contrario, accetterebbe in caso di bisogno. Il 40,5% dichiara, invece, di aver lavorato senza contratto: l’8% sempre o spesso, mentre quasi un terzo (32,5%) una volta o qualche volta. I dati confermano la diffusione del lavoro nero nel nostro Paese, anche tenendo conto che il fenomeno tende a restare in parte nascosto e potrebbe, dunque, coinvolgere una quota anche superiore di cittadini. Coloro che escludono in modo assoluto di poter mai accettare un rapporto di lavoro non regolare dal punto di vista contrattuale rappresentano una minoranza, poiché prevalgono coloro che già lo hanno fatto o immaginano di poterlo fare se si dovessero trovare in condizione di necessità. L’esperienza di lavorare senza regolare contratto viene riferita con maggiore frequenza della media dagli intervistati con basso titolo di studio: il 55,2% tra chi non ha alcun titolo di studio e il 50,8% tra quanti hanno la licenza elementare. D’altra parte, il fenomeno tocca in maniera consistente anche il 39,3% di chi ha un diploma e il 35,2% di quanti sono laureati. Lavorare senza contratto è capitato con frequenza ai giovanissimi: il 56,8% dei 18-24enni (spesso e qualche volta). A seguire si sono trovati a lavorare in nero il 48,3% dei 35-44enni e il 43,3% dei 25-34enni.
Lavoro nero per il il 40,5% dei lavoratori, e il 33% denuncia la mancanza di sicurezza sul lavoro
Oltre al lavoro nero, anche la poca sicurezza sul lavoro è un fenomeno che emerge in maniera preoccupante dai dati Eurispes. Il 33,8% dei lavoratori (o ex lavoratori) italiani afferma infatti di aver lavorato in condizioni di scarsa sicurezza come ambienti non a norma, lavoro rischioso, ecc. (il 26,9% una volta o qualche volta, il 6,9% spesso o sempre). Il 48,2% afferma di non aver mai fatto questa esperienza ma anche che non accetterebbe a nessun costo questa condizione lavorativa; il 18%, al contrario, pur non avendo mai sperimentato scarsa sicurezza, in caso di necessità accetterebbe di lavorare in queste condizioni. L’insicurezza sul lavoro è una realtà allarmane soprattutto nelle Isole (40%) e al Sud (39%).
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