Negli ultimi tempi si è tentato più volte di celebrare il De Profundis della città. Esercizio vano. La città, “cosa umana per eccellenza” continua ad essere un magnete attrattivo. Secondo il “World Urbanization Prospects 2018” delle Nazioni Unite, nel 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale vivrà, infatti, in aree urbane. Una trasformazione radicale che andrà compresa e soprattutto gestita. Più della metà della popolazione mondiale, circa il 55%, risiede nelle metropoli ed il trend, come dimostrano gli ultimi decenni, è destinato ad aumentare.
Si calcola che nel 1930 solo il 30% della popolazione viveva in aree urbane mentre nel 2050 la quota sarà addirittura pari al 68% del totale, percentuale che per il vecchio Continente arriva all’84%. Anche se i numeri parlano chiaro, le immagini purtroppo non offrono segnali incoraggianti. La città di oggi appare come un “corpo ferito” da troppa violenza, distruzione, emarginazione, morte: New York, Genova, Barcellona, Parigi, Madrid, l’elenco di terribili fatti di cronaca che hanno investito l’Europa e il mondo si fa ogni giorno sempre più lungo.
Ne parliamo con Giovanni Maria Flick, già Presidente della Corte Costituzionale, Professore emerito di diritto penale all’Università Luiss di Roma.
Presidente Flick, il suo ultimo saggio (Elogio della città? Ed. Paoline) affronta i profondi fenomeni di trasformazione sociale, politica, ed economica che caratterizzano il nostro tempo. I fenomeni urbani sono un tratto essenziale della contemporaneità. Come nasce la città?
Gli agglomerati urbani nascono per rispondere, sostanzialmente, a un’esigenza di sicurezza e di praticabilità degli scambi. La sicurezza non è altro che l’altra faccia della paura ed è su questa prima ambivalenza sicurezza-paura che si radica la fondazione delle città. Nel binomio sicurezza-paura va individuato quello che i greci chiamavano il “chorismos”, il fondamento di ogni struttura urbana che dalla violenza di Enoch (la prima città, legata alla morte del figlio di Caino) si evolve nella dimensione della superbia; pensiamo alla “Babele” del racconto biblico.
Babele viene associata a un’immagine negativa, a un castigo che complica la vita degli uomini. È una lettura corretta?
È una tappa importante Babele, perché lo stop del castigo per la comunicazione è uno stimolo alla diaspora sulla terra e quindi alla percezione della diversità, componente essenziale con cui l’uomo di ogni tempo deve e dovrà fare i conti: una componente che non esprime soltanto inferiorità e degradazione, ma prima e più ancora arricchimento e crescita. Ma le ambivalenze non finiscono qui.
La ascolto…
La dicotomia accoglienza-sfruttamento è un’altra essenziale chiave di lettura del fenomeno urbano. Gli angeli vanno a Sodoma, la via dello sfruttamento dell’ospite prende così il sopravvento sulle esigenze di ospitalità e di accoglienza e si evolve poi, con Tirone, Sidone e con Ninive, nella via del profitto. Questa sostanziale ambiguità che si traduce in una plurima violenza trova ancora una volta il suo emblema nella Scrittura: Gerusalemme Sponsa Christi e nello stesso tempo prostituta, la dimensione celeste e quella terrestre si evolvono parallelamente. Sono le tre grandi religioni monoteiste che hanno alla radice una ambivalenza insanabile. Pensiamo alla quotidianità del venerdì delle moschee per gli islamici, del sabato delle sinagoghe per gli ebrei, della domenica nelle chiese cattoliche, che si traduce in un lunedì di terrore e sangue. Al momento della festa, seguono inevitabilmente il dolore del dramma e la contrizione della penitenza. Cristo ha piena consapevolezza di questa duplicità, visita il Tempio, prende la frusta e caccia i trafficanti e i sapienti, che mascherano con la dottrina la falsità dei loro comportamenti e dei loro atteggiamenti. Il farisaismo, sinonimo di doppiezza e di inganno nasce da lì.
Il conflitto di cui parla nel saggio con dovizia di citazioni non si esaurisce nel mondo antico, attraversa le epoche, caricandosi via via di quali significati?
Nel Medio Evo e nella modernità vi sono tracce molto precise che confermano l’analisi che stiamo citando. Il celebre affresco di Lorenzetti “Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo” conservato nel Palazzo Pubblico di Siena è l’icona di una polarità che non è mai stata risolta, neanche nella città “ritratto” del Rinascimento, interpretata quale exploit artistico ed esplosione di bellezza. Questa meravigliosa opera pittorica, precorrendo i tempi, fa vedere come ci sia bisogno di interdisciplinarità per effettuare una corretta governance dei moderni contesti urbani. Architetti, sociologi, avvocati, giuristi, ingegneri devono insomma confrontarsi, sono tutte figure necessarie per affrontare i tanti problemi che attraversano la quotidianità e la complessità di una città che da un lato produce (o dovrebbe) servizi materiali e immateriali, dall’altro produce relazioni di convivenza e di conflittualità.
Il nostro modo di vivere e abitare la città si sta evolvendo, non è facile capire però in quale direzione e verso quale approdo. Qual è il suo giudizio in merito?
La storia, l’aumento della popolazione e lo sviluppo tecnologico hanno accentuato la complessità dei contesti urbani. La città non è morta, come affermava lei in premessa. Quello che occorre adesso definire è un nuovo paradigma di convivenza. Non ci sono risposte definitive, occorre sviluppare delle competenze trasversali per governare i grandi agglomerati urbani della post modernità. La scienza e la tecnica pongono nuovi interrogativi sul terreno dei diritti dell’uomo e dei cittadini, che non possono essere ignorati.
I bit, come dimostrano diversi studi, non hanno invece cancellato la distanza, ridando sorprendentemente significato ai luoghi. È nella riemersione di uno spazio pubblico partecipato che si pone il problema del “diritto alla città”?
Le questioni insite nella domanda sono molteplici. Per rimanere alla dimensione tecnologica, oggi particolarmente urgente, credo che, mentre si parla tanto di intelligenza artificiale, comincia a scarseggiare l’intelligenza naturale che nasce dalla cultura. Le città di oggi sono imprese che erogano servizi attraversate da infrastrutture sofisticate e nel contempo fragili. La domanda crescente e la risposta di tecnologia non devono però comprimere la dimensione partecipativa della formazione sociale e gli spazi della convivenza. Per dirla in termini semplici: la macchina non deve scacciare l’uomo. La Cassia, che attraversa Roma come un’autostrada nel cuore del centro, minaccia e allontana il fattore umano, come dimostrano la recente tragedia che ha coinvolto due giovani vite e la quotidianità delle vite sacrificate al traffico e all’inquinamento, quando non alla violenza urbana.
Come si fa ad arrestare la pericolosa escalation del funzionalismo polarizzato dalle esigenze di business e a ritrovare i valori del silenzio, del dialogo, dell’ascolto, della concordia, dell’ospitalità che, come si legge nel suo saggio, vengono ancora prima della definizione formale del diritto?
Ricordandosi che la città è di tutti, è luogo primario di formazione sociale, non è una piazza commerciale fatta di semplici e superficiali consumatori. Ritorna la parabola delle Sacre Scritture a far luce sulla neo barbarie che stiamo vivendo, con il racconto del vitello d’oro che ci ricorda la smodata avidità di Re Mida. L’illusione di trasformare tutto in oro si arresta di fronte alla necessità di nutrirsi. Se anche il cibo si tramutasse nel prezioso metallo giallo, moriremo tutti miseramente. Credo sia venuto il momento di imporre un alt alla logica del profitto esasperato, che sta distruggendo l’uomo nei suoi legami sociali, culturali e affettivi; il momento di affiancare – come dicevo provocatoriamente – la city school alla business school sino forse a sostituire quest’ultima.
MASSIMILIANO CANNATA – leurispes.it