Cercare di raccontare come è stata fatta l’Italia da parte del Risorgimento (La Rivoluzione Italiana) significa “toccare un tasto delicato e sfiorare una questione potenzialmente divisiva, soprattutto a ‘Destra’”, lo scrivono Invernizzi e Sanguinetti nel recente libro, “Conservatori. Storia e attualità di un pensiero politico”. (Ares, 2023)…
Tuttavia l’unità è stata fatta attraverso una guerra di conquista di uno Stato, il Regno Sabaudo e Piemontese a danno di altri Stati contigui e pacifici, come il Regno delle due Sicilie. Di fronte a questa realtà storica, non possono non sorgere diverse e gravi perplessità, non soltanto per la modalità. La conquista da noi ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi, qui c’è stata una vera e propria “incorporazione d’imperio nel regno sabaudo degli Stati sconfitti, esiliandone le dinastie e cancellandone le classi dirigenti civili e militari, alcune di alta qualità […]”. In pratica si è creato uno Stato monarchico-parlamentare, “totalmente accentrato e burocratizzato, elitario e classista, il cui territorio era controllato capillarmente dalle forze militari e poliziesche”. Inoltre l’unità non è stato solo un fenomeno politico-militare, bensì anche l’occasione di una “vasto disegno di decostruzione e rimodellamento dell’ethos italiano”. Sostanzialmente il cambiamento di regime è stata un’operazione di “pulizia culturale”, che ha attaccato alla radice le tradizioni degl’italiani, per distaccarli il più possibile dal loro pervicace cattolicesimo ‘vissuto’ e dalla fervente devozione alla Chiesa”.
Si è cercato di costruire un’identità nazionale diversa e alternativa, una specie di religiosità “civile”, edificata sulla mitologizzazione della guerra di unificazione e “sulla “beatificazione” dei suoi e non di rado discutibile protagonisti”. Peraltro, senza voler enfatizzare troppo la frase di Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866) sulla necessità di “fare” gli italiani, secondo Invernizzi e Sanguinetti, “appare ormai di evidenza solare che il Risorgimento è stato un disegno – attuato – di rieducazione civile e di pedagogia di segno modernistico e che, nelle intenzioni dei suoi artefici, è stato il compimento della ‘rivoluzione culturale’ e religiosa del Rinascimento bloccata in Italia dalla Riforma cattolica, una rivoluzione attuata mediante il trapianto a freddo di quella cultura illuministica e secolaristica, che per secoli le classi dirigenti religiose e politiche italiane avevano tenuto al di fuori dei propri confini”.
Infatti, il nuovo Regno, soprattutto nella società, “eserciterà un rigido controllo del sistema formativo e culturale, imporrà il servizio militare obbligatorio triennale a tutti i cittadini, la sua sarà una politica rigidamente giurisdizionalistica e anticlericale che, pur conservando nel suo Statuto per il cattolicesimo il ruolo di religione di Stato, imprigionerà vescovi renitenti e confinerà il Papa entro le mura vaticane, mentre lascerà invadere lo spazio pubblico da quello che è stato efficacemente definito ‘il giovedì grasso permanente di massoni, demagoghi e banchieri apatridi’”.
In pratica la nuova élite liberale di governo, farà la stessa cosa che ha fatto la Francia nel 1789. Stato accentratore con al centro la figura del prefetto, l’adozione del vessillo tricolore e uniformi militari indossate da milioni di uomini nel tragico primo conflitto mondiale. Naturalmente lo Stato-nazione unitario, ha creato “ferite”, “questioni”, rimaste a lungo aperte come la questione cattolica, con il sottoprodotto di quella “romana”; la questione meridionale; la questione sociale e la questione federale. E comunque occorre ribadire con forza, “L’Italia non è nata con il 1861-1870, e nemmeno con il 1948: l’Italia ha una storia ben più lunga e frastagliata di quella di tanti Paesi che oggi dettano legge al mondo”. Non solo vi sono personaggi e intere pagine di Storia come, per esempio “l’Insorgenza degli anni napoleonici –“la vera epopea popolare degl’italiani”- o le guerre combattute sotto le bandiere imperiali asburgiche […]”. Non si può ignorare tutta questa storia a partire dalle modalità di come è stata fatta l’unità del Paese. Pertanto è utilissimo raccontare per esempio la conquista del Sud manu militare, come hanno fatto diversi libri, tra questi ne segnalo tre in ordine di presentazione: il primo, l’inossidabile “Conquista del Sud”, di Carlo Alianello, romanziere, autore di testi teatrali e storico di alto pregio, cattolico tradizionalista. Segue, “Storia del brigantaggio dopo l’unità”, di Franco Molfese, edizioni Feltrinelli. Molfese non è uno storico reazionario. Appartiene ad una cultura certamente di sinistra, almeno quando ha scritto questo testo, infatti nell’edizione che ho letto (del 1974) trapela una certa impostazione classista e marxisteggiante del fenomeno. Infine, il testo di Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento”, Rizzoli (2007). Parto dal testo di Alianello, De “La conquista del Sud”, ho letto la 1 edizione pubblicata da Rusconi nel 1972, tra l’altro è uno dei miei primi libri letti non scolastici. Qui faccio riferimento alla riedizione riveduta dalla casa editrice Il Cerchio, nel 2010.
Alianello è stato uno dei primi a narrare la vera storia del nostro Risorgimento, che per il Sud ha significato, una conquista militare, peggiorando le condizioni sociali ed economiche e compromettendo fortemente ogni possibile suo sviluppo. Per decenni questa storia è rimasta semiclandestina perché poco rispettosa delle “patrie memorie”. Soltanto negli anni 90, è iniziata una vera e propria revisione storica ad opera di alcuni studiosi e storici nati negli ambienti tradizionalisti.
Gli studi di Alianello assumono grande significato perché lui nonostante quello che scrive non è un nostalgico del legittimismo borbonico. Mentre i militanti scrittori marxisti, liberali, azionisti a lui contemporanei, spesso hanno piegato la verità alle superiori esigenze del Progresso, del Popolo, dell’Idea.
Il testo di Alianello non segue una cronologia degli avvenimenti. In ogni capitolo fornisce precise e lunghe citazioni, memorie di chi ha vissuto quegli anni, dando spazio non solo ai filo borbonici, ma anche a chi stava dall’altra parte. Inizia il suo studio raccontando come è nata la leggenda nera sul Regno delle Due Sicilie. I protagonisti furono due eminenti e illustri politici inglesi, Gladstone e Palmerston che senza aver visitato le galere napoletane, scrivevano che il Regno borbonico, “rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto(…)la negazione di Dio; la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Dichiarazioni successivamente smentite dagli stessi interessati. Iniziava così quell’opera, non tanto sotterranea, di congiura da parte dell’Inghilterra contro il Regno di Napoli e Ferdinando II, rappresentato come un orco. A questo proposito scrive il Petruccelli della Gattina, patriota, cospiratore ed esule: “Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori d’una Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quell’orco di Ferdinando divorava a ogni pasto”.
Alianello descrive le varie furbizie e i tradimenti del Regno, a cominciare dal generale Lanza, Marra,“che non si seppero neppure vendersi a giusto prezzo”, ma anche di quei valorosi soldati rimasti fedeli al Re di Napoli e che difesero l’onore a Gaeta. Alianello, è tra i pochi, forse a descrivere la causa principale di questo tradimento in massa, di generali, alti ufficiali, ministri, direttori, preti e vescovi. “Fu una causa culturale, o meglio una cultura degradata e mal digerita posta al servizio dei propri comodi e delle proprie squallide furberie”.
Tra gli studi citati da Alianello c’è quello del cappellano Giuseppe Buttà, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, così scrive dei “vinti” borbonici: “Affamati, laceri, mietuti ogni giorno dal tifo petecchiale che falciava inesorabile i migliori, penetrando persino nell’antro della casamatta dove si erano ridotti a vivere i sovrani, ammucchiati in ospedali traboccanti di feriti e di agonizzanti, puntualmente bombardati ogni giorno (nonostante le ipocrite offerte del Cialdini)…”. Questi erano i soldati di Franceschiello, come poi li chiamò la stampa liberale, quei cafoncelli che non conoscevano che cosa fossero sinistra e destra, quelli che marciavano al passo: “co’ lu pilo e senza lu pilo…”. Il libro cerca di fare chiarezza, ripeto, senza voler apparire per forza nostalgico o legittimista, “al giorno d’oggi sarebbe perlomeno ridicolo: i Borboni, come i Savoia, non ci interessano; al massimo ci piacerà talvolta confrontare la fine degli uni e degli altri alla luce della nobiltà degli atti di valore”.
Scomparso il Regno di Napoli arriva la liberazione dei vincitori, che si traduce in “L’Italia combatte l’Italia”, “L’Italia subissa l’Italia”, così, “dopo tanti sterminati vanti del nostro primato civile, ora diamo spettacolo d’avidità da pirati, di barbarie esecrande, di cinismo e d’ateismo vestiti di stucchevoli ipocrisie”.
Continua…
DOMENICO BONVEGNA