La terza missione dell’Università: dubitare e trasformare

Il professor Digennaro per “sfidare il conformismo e credere nel cambiamento”. La sua prolusione e i naturali accostamenti con la mission Uisp…

Conoscere per intervenire, non per lasciare le cose come stanno: al centro della prolusione del professor Simone Digennaro, presidente del Corso di laurea di Scienze Motorie dell’Università di Cassino, che ha inaugurato l’anno accademico dell’Ateneo laziale, ci sono le periferie sociali e geografiche.

L’impegno sociale e civile, non va disgiunto dall’impegno per acquisire nuovi saperi e competenze” ha detto Digennaro nel suo discorso: “L’Università è un atto di resistenza: dubitare, sperare, trasformare“. E alcuni accostamenti con la mission Uisp ci sono venuti naturali, perchè “la comunità, attraverso l’educazione, non si limita a resistere, ma immagina e costruisce un futuro diverso”.

‘Immagina’ appunto, questo è lo stimolo che l’Uisp ha scelto per il suo recente Congresso nazionale e per l’intero anno sportivo. Una “pedagogia della speranza” pensando a Caivano, dove proprio l’Uisp Campania ha promosso con Fondazione con il Sud il progetto “La bellezza necessaria”. Lì, ha aggiunto Digennaro, l’Università deve portare “speranza e cambiamento in un contesto difficile. Per dare voce a una comunità messa nell’ombra, consapevoli che non avere voce vuol dire non avere diritti”. Digennaro è stato protagonista di un podcast realizzato da Uisp nazionalelo sportpertutti nell’epoca del postumano. Inoltre è direttore scientifico della rivista “Corpo, società, educazione” della quale ci occupammo un anno fa, in occasione del suo lancio.

Pubblichiamo il testo integrale della prolusione di Simone Di Gennaro perchè riteniamo sia un testo attraverso il quale l’Università si apre all’intervento sociale, utilizzando lo sport come filigrana culturale attraverso la quale leggere la realtà. Ricordiamo che il professor Simone Digennaro è stato collaboratore scientifico di vari progetti nazionali Uisp in questi anni, tra i quali “Steps” (politiche per l’infanzia) e “Next” (sport di prossimità).

“Il compito dell’università è insegnare a dubitare, ma anche a credere in qualcosa” (José Ortega y Gasset).

“Ho voluto cominciare con questa affermazione di Ortega y Gasset poiché, pur nella sua semplicità e chiarezza, rimanda a una profonda rivisitazione del modo di intendere l’Università – ha detto Simone Digennaro nella sua prolusione all’apertura dell’anno accademico dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale – Sono convinto che nel nostro agire come Università non possiamo limitarci a descrivere la realtà, a raccontarla, ad analizzarla, sia pure con strumenti estremamente complessi. Ma sempre di più dobbiamo impegnarci in un processo di costruzione della realtà, di una nuova realtà. Il nostro ruolo oggi più che mai è quello di rendere possibile un processo di cambiamento che riguarda la comunità.

Comunità che oggi sono influenzate da processi epocali: sul piano sociale, politico, economico e culturale. Ed è dunque impensabile che in questi cambiamenti l’Università si posizioni solo su di un piano superficiale e formale. Abbiamo l’obbligo scientifico – e aggiungo, morale – di entrare dentro questi processi.

La funzione dell’Università, la nostra funzione, non si limita alla sia pure importante trasmissione del sapere e di chiavi di lettura della realtà, ma include la capacità di interrogare il presente, sfidare il conformismo e opporsi a regimi concettuali che forse sono più sotterranei, a volte invisibili, ma che minacciano la libertà di pensiero, di espressione e di sviluppo.

Mi piace rappresentare l’Università come un’Istituzione con un progetto pedagogico che agisce nel presente, ricordando il passato e guardando al futuro, proiettandosi verso di esso.

Ma in questa proiezione verso il futuro, tutto sommato facilmente identificabile su di un piano concettuale, finanche condivisibile, si presentano tutta una serie di rischi. Perché oggi ci troviamo sempre più spesso di fronte a situazioni culturali, sociali ed economiche che non sono completamente categorizzabili in base allo stato attuale delle conoscenze che possediamo e quindi facciamo fatica anche a comprenderle.

In più, in quella che è stata definita come l’epoca delle passioni tristi, sempre di più è difficile credere nella promessa di un cambiamento, credere nella possibilità di poter intervenire in favore di un progresso sociale.

Quindi, in primis è nostro compito cercare di ricostruire una promessa di cambiamento.

A tutto questo si aggiungono forme più sottili di dominio culturale ed economico, proprie della cosiddetta società post-umana, che impediscono il progresso sociale. E di fronte a queste, noi dobbiamo porci in un atteggiamento che vorrei definire di resistenza. Ne enucleo tre in particolare:

  • Il degrado educativo, sempre più diffuso in contesti politici e sociali, che mette in discussione anche la libertà accademica, sempre più influenzata da logiche di mercato e da fondamentalismi ideologici.
  • La disinformazione e la manipolazione dell’informazione – siamo passati dall’idea di una cultura di massa a quella di una cultura massificata in cui la qualità delle informazioni e delle conoscenze si è ridotta.
  • L’educazione ai diritti umani e alla giustizia sociale – che mai prima d’ora sembra essere tanto dibattuta quanto poco considerata.

Sono convinto che nella società post-umana, la cosiddetta terza missione dell’Università possa giocare un ruolo strategico. L’Università deve essere aperta alla comunità e nello stesso tempo agire su di essa. Anzi, la comunità è il principio stesso che dà vita all’Università.

E probabilmente, mi permetto di dire, questo è uno degli elementi caratteristici della nostra Università, dell’Università di Cassino. Se la nostra Università rimanesse isolata dalla comunità, sarebbe priva di fondamento.

La nostra terza missione è uno dei capisaldi del nostro impegno in favore di un progresso sociale. Faccio riferimento a un progetto emblematico, che in questi ultimi anni abbiamo sviluppato nel parco verde di Caivano. Zona tra le più complesse e a rischio degrado e disagio di tutta l’Italia.

Riporto questo esempio perché ha segnato gli ultimi quattro anni dell’impegno del nostro Ateneo in favore della comunità. Non necessariamente di una comunità a noi strettamente prossima, ma certamente una comunità in cui era acuto il bisogno e dunque la necessità di un nostro intervento. Lì siamo andati per portare una speranza, la speranza del cambiamento. E lo abbiamo fatto sviluppando attività laboratoriali, incontri di comunità, sostegno alla genitorialità, accompagnamento allo studio. Abbiamo dato soprattutto voce a una comunità che era stata messa nell’ombra, consapevoli del fatto che non avere voce vuol dire non avere diritti.

Ma ci siamo anche posti a diretto contrasto con la criminalità. A seguito della riunione di avvio di progetto la sede dell’associazione capofila è stata data alle fiamme. Il motivo? Il controllo di una piazza di spaccio, che noi abbiamo deciso di prendere, strappare alla criminalità e riconsegnare alla comunità.

In questo intervento c’è l’essenza di un’Università che ha voluto prendere una posizione, che si è messa dalla parte del bisogno, che ha voluto farsi argine contro la criminalità. Questo impegno non potrà mai essere misurato con indici citazionali o con l’impact factor; a volte sfugge perfino alla nostra stessa valutazione. Ma vi assicuro che per quella comunità la nostra presenza ha significato un cambiamento significativo. Un atto trasformativo!

Qui mi faccio aiutare da Paulo Freire il quale ci insegna che l’educazione di comunità è un atto profondamente politico e trasformativo, un processo che non è mai neutrale, ma sempre legato alla coscienza critica e all’azione per il cambiamento sociale. Nella Comunità di Caivano noi abbiamo fatto quella che è definita la pedagogia della speranza.

Speranza intesa non come un semplice attendere che il cambiamento avvenga. Nella speranza abbiamo un orizzonte di possibilità che si offre all’individuo. La speranza in senso pedagogico ha una funzione attiva, è uno slancio dell’uomo per compiere un energico balzo verso il futuro.

Nella pedagogia della speranza si trattano i grandi temi del momento, nelle loro urgenze. Poiché, a volte, il tempo della ricerca non è il tempo della pedagogia.

Nella nostra terza missione, nel mandato di UNICAS, l’educazione non è mai solo denuncia e contrasto delle ingiustizie, tutela dei più fragili, ma è sempre accompagnata da una promessa di cambiamento. La comunità, attraverso l’educazione, non si limita a resistere, ma immagina e costruisce un futuro diverso.

Se colleghiamo questo al contesto di Caivano, possiamo dire che la nostra educazione di comunità lì non è stata solo una risposta a una condizione di marginalità, ma un progetto di emancipazione, un modo per dare alle persone strumenti concreti per cambiare la loro realtà. In questo progetto UNICAS – come in molti altri in cui la nostra Università va al fianco del territorio – crede nella capacità della comunità di riscrivere la propria storia.

E allora provo a chiudere il cerchio con quanto ho detto in apertura: la responsabilità che grava sull’Università non è semplicemente quella di studiare e descrivere minuziosamente queste dinamiche, ma piuttosto di insegnare alle comunità che cosa significa, nelle condizioni di vita che viviamo oggi, essere una società democratica, inclusiva, accessibile.

Noi docenti dobbiamo sempre scegliere da che parte della storia della comunità vogliamo stare, dobbiamo schierarci. Dobbiamo anche scegliere da che parte del sapere scientifico vogliamo stare. Dobbiamo avere un’effettiva convinzione sul mondo, sulla comunità, sui valori delle cose e delle azioni. Ciò implica che ci siamo formati un’idea di quel che è la realtà, le cose in essa e le nostre possibili azioni su di essa.

Amore per la verità ci obbliga a riconoscere che oggi il nostro ruolo di docenti è molto diverso da quello che era, benché non sia ancora, neppure lontanamente, quello che deve e può essere. L’Università in generale e UNICAS in particolare affrontano alcune delle situazioni tra le più problematiche delle nostre esistenze, smussando senza difficoltà le nostre discrepanze, al di sopra delle nostre scelte politiche e delle nostre ideologie.

Ma nulla come fare educazione costringe a guardare le cose. Niente come l’educazione costringe, ci dice Dewey, a ripensare la società in senso progressivo. È nel disagio della comunità che dobbiamo andare, è dentro quel disagio che dobbiamo agire; è dentro la sofferenza sociale che ci dobbiamo schierare come docenti. E svolgere la nostra funzione primaria.  La tutela dei diritti, il contrasto alle diseguaglianze, l’inclusione, il progresso non sono solo argomenti da trattare a lezione o come spunti per ricerche o per nuovi corsi di laurea: ma devono essere il progetto politico di docenti schierati. Schierati a favore del progresso sociale.

Il nostro imperativo come docenti è dubitare del presente, sperare nel futuro e trasformare la comunità”. (a cura di I.M.)