Le testimonianze di Shireen Najjar, Dorit Alon Shippin e Giulia Ceccutti hanno fatto conoscere un modello di convivenza pacifica e democratica tra ebrei e palestinesi in Israele… |
Rho – E’ difficile parlare di pace in questo 2025. Il Comune di Rho lo ha fatto partendo dalla testimonianza concreta di una pace possibile, quella sperimentata dal 1974 nel villaggio Neve Shalom Wahat al-Salam in Israele, terra martoriata da continui conflitti: una comunità che è divenuta modello di convivenza pacifica tra ebrei israeliani e arabi palestinesi. Due esponenti della comunità sono state ospiti domenica 19 gennaio 2025 dei Percorsi di pace ideati da Comune di Rho, Caritas Cittadina, Consiglio cittadino Migranti. Si tratta della palestinese Shireen Najjar e dell’ebrea Dorit Alon Shippin, accompagnate da Giulia Ceccutti, dell’Associazione italiana NSWAS. L’incontro con loro, in Auditorium, ha chiuso un ricco week end iniziato con il concerto all’Auditorium Maggiolini ideato la sera di sabato 18 gennaio dal Consiglio Migranti, con il particolare contributo della presidente Angela Kilat e di Ugo Terzaghi. Sempre il Consiglio Migranti ha animato domenica in via Meda 20 un pomeriggio di canti e letture per i più piccoli con il contributo di Associazione OASI e Leggi che ti passa. Alle 18 la fiaccolata che ha visto la partecipazione di oltre 400 persone, con rappresentanti di 17 Comuni del circondario e numerose realtà, dalla Scuola San Michele e San Carlo alla Chiesa cinese di Dio Onnipotente. Presenti l’onorevole Vinicio Peluffo, i consiglieri regionali Carlo Borghetti e Michela Palestra, il vescovo monsignor Giuseppe Vegezzi, il decano don Fabio Verga (che ha portato i saluti dell’arcivescovo monsignor Mario Delpini), il prevosto don Gianluigi Frova. In via Meda, l’aperitivo multietnico ha coinvolto anche la Lega culturale islamica. Quindi, la serata di dialogo con le ospiti presenti a Rho per l’intera giornata, grazie a Caritas Cittadina, alla Parrocchia San Vittore e all’impegno di Annibale Pennetta. Un grazie alle interpreti Mariangela Moroni, per l’intera giornata, ed Emanuela Parisotto per il confronto pubblico moderato da Angela Grassi.
L’assessore alla Pace Paolo Bianchi ha sottolineato l’importanza di “vivere insieme alla pari, dandosi regole precise, decise insieme”: “Quando Caritas e Consiglio Migranti hanno espresso il desiderio di invitare queste ospiti, ci siamo interrogati su come vivere anche qui a Rho il desiderio di pace. Lo abbiamo fatto fermandoci a ragionare, con un concerto in cui si sono espresse diverse voci, con la fiaccolata. E lo vogliamo fare traendo spunti da queste testimonianze”.
Giulia Ceccutti ha illustrato la vita nel villaggio NSWAS, nato nel 1974 dalla felice intuizione di Bruno Hussar, ebreo di nascita divenuto cattolico e consacrato domenicano: lì vivono cento famiglie, metà ebree, metà palestinesi (musulmane o cristiane): “Sono cittadini israeliani che vivono insieme per scelta, il sistema educativo è bilingue e binazionale, dà pari dignità a lingua, storia e tradizioni di entrambi i popoli. Per gli adulti è nata la Scuola della pace, frequentata in mezzo secolo da 80mila persone. Come associazione italiana dal 1991 sosteniamo il Villaggio. Crediamo che abbia molto da dire alla nostra realtà italiana in termini di convivenza, inclusione, rispetto dell’altro. Aiutiamo la Scuola primaria e finanziamo con borse di studio giovani italiani che scrivano la propria tesi sul Villaggio e vivano lì per sei mesi per riportare in Italia quella metodologia di dialogo”.
Questa la testimonianza di Dorit Alon Schippin: “Ho deciso di vivere al villaggio quando ero già sposata, avevo 27 anni e credevo nella pace. Desideravo crescere i figli in un’atmosfera non conflittuale. Sono nata e cresciuta nella zona di Tel Aviv e non avevo avuto prima la possibilità di confrontarmi con arabi palestinesi. La mia educazione politica è avvenuta al villaggio. Alla Scuola della pace educhiamo noi stessi e gli altri sulle radici del conflitto perché ogni parte possa conoscere l’altra. In Israele si cresce in luoghi diversi con lingue diverse, Io ho ascoltato solo una storia, quella che vedeva gli avvenimenti dal punto di vista ebraico. Al villaggio ho sentito storie diverse. La guerra che per noi era di “indipendenza”, per i palestinesi era stata una sofferenza, un disastro. Non è possibile creare la pace se guardiamo semplicemente a uno dei due lati”.
Questa la testimonianza di Shireen Najjar: “Sono stata la prima bimba araba nata al Villaggio. I miei genitori venivano da villaggi del Nord, in cui si era sempre vissuta una forte divisione. Mio padre ha sentito parlare della idea di Bruno Hussar e ha deciso di parteciparvi perché voleva che i suoi figli fin da piccoli potessero avere la possibilità di conoscere “il nemico”. Nel villaggio ho sempre vissuto in modo libero il mio essere palestinese, araba e musulmana. Poi quando mi sono trasferita per scuole superiori e università ho conosciuto una realtà profondamente razzista: mi sono trovata oppressa come palestinese, donna e musulmana. Mio marito è della zona Est di Gerusalemme: lì la polizia israeliana controlla ogni aspetto della vita, ci sono soldati ovunque. Ci sono varchi dove mostrare i documenti. Quando ho avuto dei figli ho detto basta. Oggi mi sento privilegiata per poter crescere i miei figli nel villaggio. Al villaggio il sistema scolastico prevede due insegnanti, con due lingue, per dare vita a una nuova forma di condivisione. Alla Scuola della pace abbiamo gruppi che devono essere uguali e paritari, un facilitatore ebreo e uno palestinese. E’ completamente diverso dalla oppressione degli arabi che si vive in Israele”.
In Israele il 7 ottobre 2023 ha sconvolto tutti. Anche di fronte al nuovo conflitto Shireen e Dorit hanno dimostrato di essere solide nella rispettiva appartenenza al proprio popolo, ma determinate nella scelta di essere donne di pace. Shireen: “L’occupazione era già presente, ma sono iniziate forti ondate di violenza. E’ facile essere vicini di casa quando le cose vanno bene. Questa crisi ci ha messo alla prova. Per un mese non sono uscita dal villaggio, la mia famiglia pensava non fosse sicuro per me, che porto il hijab. Era pieno di militari, c’era grande insicurezza. A tutt’oggi il villaggio rimane la zona più sicura per me e tanti arabi. Molti palestinesi sono stati arrestati solo per post con scritto “Il mio cuore è a Gaza”. Io ve lo ripeto, non dimenticatevi di Gaza! E’ mio dovere dirlo e dirvi che non si deve supportare l’invio di armi che anche dall’Italia arrivano per bombardare le persone. Il nuovo conflitto è stato un test per noi come comunità e come esseri umani, io voglio dare fiducia alla pace e all’educazione alla pace. Noi palestinesi ci sentiamo oppressi, abbiamo bisogno di giustizia. Non importa se con uno o due stati, chiediamo giustizia, libertà di movimento, la possibilità di scegliere e non che altri scelgano per noi. Voglio poter vivere nella mia patria esattamente come fanno gli israeliani. Da questo punto di partenza possiamo negoziare”. Dorit: “Il 7 ottobre è arrivato come uno shock. Non è stato facile metabolizzare quanto accaduto. Era scioccante il fatto che cittadini israeliani fossero rapiti nelle loro case, le donne stuprate, adulti e bambini uccisi. Non ha sorpreso perché l’occupazione della Cisgiordania stava creando un forte senso di oppressione e di rabbia. La politica di Israele da anni consisteva nel mantenere lo status quo senza cercare soluzioni. Dopo l’attacco gli israeliani volevano vendicarsi. Nel villaggio ci siamo resi conto che questo non è il tempo della vendetta ma della riflessione su come andare avanti. Alla fine lì non vediamo tutto in bianco e nero, ma da un solo lato, quello della vita, della pace, del vivere insieme. Nel villaggio abbiamo costruito una strada della pace che dice che la pace è possibile, le soluzione dall’alto non servono, conta che i due popoli siano pronti a realizzarla. Oggi c’è tregua e siamo lieti, ma arriva troppo tardi per le sofferenze che ci sono state e le persone che non ci sono più. Qualcosa è cambiato profondamente per noi ebrei, la storia ha dimostrato che siamo capaci di commettere dei crimini. Come israeliana ritengo che la pace possa essere costruita, dobbiamo continuare a impegnarci senza gettare la spugna. Bruno Hussar diceva che se piantiamo semi di pace saranno i loro figli a raccogliere i frutti, ci vorranno diverse generazioni ma non dobbiamo gettare la spugna. A seguito della situazione che si è venuta a creare stiamo molto attenti all’uso dei social, ai termini che usiamo al telefono, cerchiamo di non rischiare l’arresto. Quanto ad Hamas, dai miei amici palestinesi non ho sentito alcun supporto nei suoi confronti, esattamente come io non supporto il governo attuale, di estrema destra. Vorrei che anche i miei amici palestinesi dicessero lo stesso della ideologia estrema di Hamas”.
Il Sindaco Andrea Orlandi ha chiuso la serata con tre riflessioni: “Appare evidente come i fatti che leggiamo a volte siano più complessi di quanto appaiono, vanno letti alla luce della storia precedente. Possiamo giocare con la nostra storia un ruolo nella storia, incidere nel nostro piccolo secondo gradi di responsabilità. Infine, il modo di passare le informazioni determina una opinione piuttosto che un’altra. Ho seguito durante il conflitto i pochi giornalisti che postavano video e foto di quanto avveniva a Gaza, a rischio della propria vita. Mi hanno colpito le singole vicende umane che raccontavano. Lì si viveva qualcosa che non rimandava a un destino comune. La dimensione comunitaria veniva sempre più distrutta. Questa guerra non aveva obiettivi militari, ma aveva nel mirino la popolazione civile. Vedendo distrutte le vite di tanti bambini, mi chiedo come facciano poi a seminare pace. Ma ciascuno gioca davvero un ruolo importante e l’esempio del Villaggio ci dice che il sogno di pace non è irraggiungibile. Questo esempio può aiutare la convivenza anche nella nostra comunità. Su questo abbiamo molto da lavorare”.
Andrea Orlandi così si era espresso al termine della Fiaccolata per la pace del pomeriggio, prima che venisse srotolata una enorme bandiera della pace: “E’ difficile parlare di pace nel 2025. E’ difficile, anzi impossibile, pensare a cosa si provi sotto le bombe. E’ difficile comprendere lo stato d’animo di quell’uomo che la bomba dal cielo l’ha lanciata dietro ordine di qualcuno. E’ difficile capire come può esistere qualcuno che parteggia per la guerra e la fa diventare un programma politico. Già, è difficile, forse impossibile, pensare davvero a tutto questo. E’ difficile ma abbiamo tutti il dovere di costruire la pace.
Nella foto, da sinistra: Emanuela Parisotto, Giulia Ceccutti, Andrea Orlandi, Shireen Najjar, Dorit Alon Shippin |