Era il 1955 quando Pier Paolo Pasolini esordiva nella narrativa con “Ragazzi di Vita” dove il Riccetto, il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone, l’Alduccio ed altri giovanissimi sottoproletari romani sciamavano dalle borgate verso il centro città. Allora la cornice di riferimento era la Roma monumentale e quella della speculazione edilizia; contesto perfetto per mettere in evidenza la contraddizione di cui è intriso il romanzo: contraddittorio è lo spazio in cui si svolge l’azione e contraddittorio è il carattere dei giovani protagonisti che alternano violenza gratuita a generosità patetica.
Ebbene il 12 giugno sarà la Giornata Mondiale contro il lavoro minorile e la mia mente, sull’onda emotiva, è andata a ripescare le figure indelebili del Riccetto, del Caciotta e degli altri, magistralmente dipinte dalla penna del Maestro dalle 3 Pi.
Premesso che non amo né condivido il “sacrificio” delle giornate mondiali a questo o quel tema, in questo contesto, intendo usare opportunisticamente l’anzidetta data per tornare a parlare di lavoro minorile, una piaga mai guarita, senza tempo né spazio.
1) Il lavoro minorile in Italia e la latitanza dell’Istat
Il lavoro minorile in Italia è vietato dal 1967, tuttavia, si può lavorare dai 16 anni (dai 18 per i lavori più usuranti) a patto che si abbia frequentato la scuola per almeno 10 anni: vale a dire 5 anni di scuola elementare, 3 di scuola media e 2 anni di scuola superiore. La legge, infatti, prevede che per lavorare dai 16 anni si sia in possesso della licenza media e si abbia completato un corso di formazione riconosciuto dallo Stato. Tale normativa si applica a tutti i minorenni che intendano lavorare che si trovino in Italia, siano essi cittadini o stranieri.
Nonostante questa regolamentazione, il problema del lavoro minorile resta enorme e spesso dimenticato dalle Istituzioni e dalla Politica. Basti pensare che l’unica indagine dell’ISTAT sul lavoro minorile risale al 2000: 20 anni fa (!) (Cfr. ISTAT, Bambini, lavori e lavoretti. Vero un sistema informativo sul lavoro minorile. Primi risultati, Roma 2002).
Per capirne la portata nella sua enormità, è sufficiente dare uno sguardo al numero di ispezioni e segnalazioni rilevate annualmente dalla Direzione Centrale di Vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro: dal 2013 fino al 31 dicembre del 2019 si sono verificati poco più di 1700 casi di violazioni penali accertate della normativa sul lavoro minorile. Vale a dire ragazzini che cominciano a lavorare prima dei 16 anni e senza i requisiti richiesti in tema di formazione scolastica. E si tratta solo di una minuscola parte in quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, lo sfruttamento dei minori rimane sotterraneo, del tutto impermeabile a denunce e a controlli.
2) Il Lavoro minorile: si muove trasversale da Nord a Sud del Belpaese.
Un interessante articolo comparso su “L’Espresso” il 9 Gennaio dello scorso anno (https://espresso.repubblica.it/attualita/2019/01/07/news/lavoro-minorile-l-italia-e-il-paese-dei-piccoli-schiavi-1.330218) metteva in evidenza come “(…) il lavoro minorile si srotola lungo l’Italia in una desolante geografia che dalle campagne della Pianura Padana porta ai mercati rionali del Sud…”.
Evidenziando così come il lavoro minorile sia un problema del tutto trasversale al Paese, che riguarda sia le zone maggiormente industrializzate del nord che le aree più agricole del centro sud.
I settori dove il lavoro minorile è più diffuso – continua a chiarirci l’articolo su “L’Espresso” – sono il commercio, la ristorazione, l’agricoltura e i servizi. Settori facilmente riscontrabili ovunque sul territorio nazionale.
In particolare, l’autore dell’articolo su L’Espresso ci informa che “(…) fra le attività più controllate dai Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro nel Nord, per esempio, ci sono gli autolavaggi delle grosse metropoli come Torino, dove spesso ragazzini dai 13 ai 18 anni vengono sottoposti a ritmi massacranti per 3 euro all’ora (…)” – mentre non ha dubbi nell’affermare che, a Napoli, è quasi una certezza – “(…) che i piccoli lavoratori finiscano per ingrossare le file delle maestranze criminali (…)”.
3) Il Lavoro minorile: miete vittime tra stranieri e italiani.
Sulla base dell’interessante studio realizzato nel 2013 da Save the Children e Associazione Bruno Trentin pubblicato col titolo “Game Over. Indagine sul lavoro minorile in Italia”, a cura di K.Scannavi e A. Teselli, Ediesse, Roma 2014, emergeva che il lavoro minorile era trasversale anche alla nazionalità.
Nel 73% dei casi i giovani lavoratori risultavano italiani, mentre nel 27% stranieri (in genere della Romania, Albania e Africa del nord).
Al 2013, inoltre, erano 260.000 i minori tra i 7 e i 15 anni con una qualche esperienza di lavoro illegale. In particolare, si evidenziava che più del 60% degli intervistati svolgeva attività lavorativa tra i 14 e i 15 anni, oltre il 40% al di sotto dei 13 anni e circa l’11% persino prima degli 11 anni. Ben il 20% dei minori svolgeva lavori di tipo continuativo ed erano considerati “a rischio sfruttamento”.
Si constatava, tra l’altro, di come il lavoro creasse un’interruzione nella frequenza scolastica, non lasciando nemmeno il tempo per il divertimento con gli amici, sacrosanto per un sano sviluppo psico-fisico nonché diritto che dovrebbe essere garantito ad ogni minore. Infine, si appurava di come il lavoro venisse da questi percepito come moderatamente pericoloso.
4) Il nostro codice penale: dallo sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis alla riduzione in schiavitù ex art. 600.
Lo sfruttamento del lavoro nel nostro ordinamento è previsto come reato dall’art. 603 c.p. che recita:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato chiunque:
1 – Recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori (c.d. “intermediazione illecita”);
2 – Utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da 5 a 8 anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato (…)”.
La norma, quindi, prosegue dicendoci cosa si deve intendere per “sfruttamento”.
A titolo esemplificativo ci dice che è un indice di sfruttamento “la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti” ovvero ancora “la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro , ai periodi di risposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie…”.
L’ultima parte della norma prevede una serie di aggravanti specifiche che comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà e, tra esse, è menzionato il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa.
Se ne deduce, quindi, che non esiste una fattispecie autonoma del reato di sfruttamento del lavoro minorile che, invece, esiste esclusivamente in quanto aggravante specifica del reato di sfruttamento del lavoro e, come tale, rende il reato punito ben più severamente.
Ciò chiarito, occorre ricordare che per le forme più gravi di sfruttamento del lavoro minorile è ipotizzabile anche il reato di “riduzione in schiavitù” di cui all’art. 600 c.p.. (1)
5) Le ricadute economiche della pandemia di Coronavirus sul lavoro minorile nel mondo ed in Italia.
Emerge, quindi, lo stretto rapporto tra lavoro minorile e povertà. Correlazione che vale evidentemente in tutto il mondo e non solo in Italia. Di conseguenza è ragionevole pensare che le ricadute economiche della pandemia da Covid-19 aumenteranno la povertà familiare nel mondo.
Secondo un recente studio Unicef-Save the Children (https://www.minori.gov.it/it/print/7275) la povertà arriverà a coinvolgere fino a 86 milioni di bambini in più entro la fine del 2020.
Nell’indagine si evidenzia, inoltre, che in assenza di azioni immediate per proteggere la famiglia dalle difficoltà finanziarie causate dalla pandemia, il numero totale di bambini che vivono sotto la soglia di povertà nei Paesi a basso e medio reddito, potrebbe raggiungere i 672 milioni entro la fine dell’anno.
In termini relativi, gli incrementi più significativi potrebbero riguardare Europa ed Asia Centrale (+44%), mentre in America Latina e Caraibi l’aumento sarebbe del 22%.
Le due organizzazione che hanno effettuato questo studio hanno anche ribadito che già prima del Covid-19 due terzi dei bambini nel mondo non aveva accesso ad alcuna protezione sociale. Inoltre, centinaia di milioni di loro sono vittime della povertà multidimensionale, che consiste nello scarso accesso all’assistenza sanitaria, istruzione, nutrizione o alloggio adeguati. Purtroppo questa condizione è l’effetto di una spesa pubblica non equa da parte dei Governi. Laddove, invece, i bambini vivano in Paesi già colpiti da guerre e violenze, l’impatto di questa crisi da Coronavirus, purtroppo, non farà che aumentare il rischio di instabilità e il numero di famiglie che finiscono in povertà.
In conclusione
ritengo utile riportare le richieste formulate ai governi del mondo da Unicef e Save the Children per provare a mitigare l’impatto del Coronavirus sui bambini nelle famiglie povere.
Le due organizzazioni chiedono, in particolare, un’espansione rapida e su larga scala dei sistemi e dei programmi di protezione sociale (sussidi monetari, refezione scolastica e sussidi per l’infanzia). Tra queste l’accesso universale all’assistenza sanitaria di qualità e ad altri servizi sociali di base.
Limitatamente al Paese Italia ritengo che sarebbe già una conquista ottenere che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, oggi guidato dalla sig.ra Nunzia Catalfo, incaricasse l’ISTAT di intraprendere un monitoraggio del lavoro minorile, anche e soprattutto attraverso l’implementazione di un sistema statistico del lavoro minorile.
6) Note conclusive sul fatto di cronaca nerissima avvenuto in Pakistan ai danni di una bambina di appena 8 anni che già non c’è più: #JusticeForZohra Shah.
Lo scorso lunedì 8 giugno, con buona parte delle persone “buone e degne” che popolano questo nostro Pianeta praticando l’umanità (quella vera e profonda: non la carità cristiana di mia nonna), credo di aver condiviso il medesimo sentimento di feroce impotenza e di infinita ingiustizia, sgorgato fuori a piccoli rantoli, lenti e dolorosi, che ancora emetto, dall’aver appreso la storia senza senso della vita appena nata, scippata a Zohra Shah.
Zohra aveva 8 anni e probabilmente non è stata mai una bambina e forse nemmeno una donna fatta. Chissà, se aveva già avuto il suo primo ciclo mestruale… Sicuramente aveva un cuore e un cervello e poteva percepire dolore e sofferenza. E senz’altro se n’è andata tra atroci dolori e sofferenze. Lei, però, non è un cane, Lei è una persona. Era una bambina di 8 anni con un nome e un cognome: Zohra Shah. Eppure il privilegio di appartenere alla specie “giusta” non l’è valso la salvezza, né la dignità di essere persona, né il diritto di essere bambina.
E’ stata uccisa, massacrata di botte e forse stuprata, dalla ricca coppia di Rawalpindi presso la quale lavorava come cameriera, probabilmente perché ha restituito la libertà a dei pappagalli ristretti in una gabbia senz’altro più d’orata di quanto non fosse la sua…
Non c’è nulla da dire. Basterebbe avere orecchie per ascoltare il rumore assordante del suo giovane cuore al galoppo verso la morte per comprendere quanto ogni parola sia vana.
Il problema è dentro anche se ci ostiniamo a vederlo fuori.
Note
La riduzione in schiavitù
In particolare, l’art. 600 c.p. prevede al suo primo comma che:
“Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni continuative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi a prelievo di organi, è punito con la reclusione da 8 a 20 anni…”
E’ interessante rilevare come la norma all’esame si caratterizzi per la puntuale tipizzazione delle condotte rilevanti che possiamo ricondurre a tre configurazioni:
1) L’esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà.
In estrema sintesi, vale a dire ridurre la vittima ad una “res” oggetto di diritti patrimoniali che, poi, è la nozione di “schiavitù” dettata dall’art. 1 della Convenzione relativa alla schiavitù stipulata a Ginevra nel 1926 e ratificata dall’Italia nel 1928, oggi ancora pacificamente accolta;
2) La riduzione di una persona in uno stato di soggezione continuativa, attraverso l’imposizione di prestazioni lavorative o sessuali ovvero dell’accattonaggio o comunque di prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.
Le anzidette condotte di soggezione assumono rilievo penale quando sono attuate “mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una posizione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità o mediante la promessa e la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” (art. 600, comma II, c.p.).
E’ importante precisare che la giurisprudenza ( cfr. Cass. Pen. n° 3368/2005) ha chiarito come lo stato di necessità richiamato dal 2° comma della norma all’esame vada inteso come “qualsiasi situazione di debolezza e di mancanza materiale o morale idonea a condizionare la volontà della persona” e non è, pertanto, riconducibile alla nozione di stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.. Anzi, una più recente giurisprudenza (cfr. Cass. Pen. n°2841/2007), ha ritenuto che lo stato di necessità di cui al 2° comma dell’art. 600 c.p. coincida con la definizione di “posizione di vulnerabilità” così come definita nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani.
3) Il mantenimento di una persona nello stato di soggezione delineato in precedenza.
La norma all’esame attribuisce finalmente rilievo esplicito altresì al “mantenimento” in stato di soggezione, permettendo così di sanzionare chi mantenga in soggezione persona già privata della libertà da altri e non solamente persone in libertà.
Anche in questo caso, la giurisprudenza è intervenuta per chiarire alcuni aspetti rilevanti come, ad esempio, il rapporto intercorrente tra il reato all’esame e quello di maltrattamenti in famiglia. La Suprema Corte, in particolare, partiva dal presupposto che il reato di cui all’art. 600 c.p., prevedendo lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ne implicasse necessariamente il maltrattamento a prescindere dalla percezioni che la vittima avesse della sua situazione. Ne consegue che il reato all’esame non potrà concorrere, per il principio di consunzione, con il reato di maltrattamenti in famiglia (cfr. Cass. Pen. n° 235816/2007). La medesima Corte ha affermato, altresì, che laddove le condotte siano poste in essere da genitori nei confronti dei figli o di altri bambini in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione e costretti all’accattonaggio, non sia invocabile da parte dei genitori o dei parenti la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto
richiamandosi alle consuetudini delle popolazioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, in quanto la consuetudine può avere efficacia scriminante solo se richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti (cfr. Cass. Pen. n°2841/2007).
Angela Furlan, Presidente di Super Minus onlus, consulente Aduc