Come riuscì il cristianesimo primitivo a svilupparsi fino a diventare la religione più diffusa dell’impero romano? Chi prestò ascolto alla «Buona Novella» e chi invece la ignorò?
A queste domande e a tante altre risponde il sociologo delle religioni americano Rodney Stark in un saggio, «Le città di Dio. Come il cristianesimo ha conquistato l’impero romano», Lindau (2010). «Basandosi su dati quantitativi e sui risultati degli studi più recenti, sia in ambito storico sia archeologico, Rodney Stark propone una ricostruzione dei fatti largamente inedita e rovescia molti luoghi comuni». Stark sostiene che il cristianesimo primitivo si sviluppò nelle più importanti città portuali dell’impero romano. San Paolo, più che convertire i gentili (i pagani), convertì per lo più i giudei. Inoltre il culto pagano non fu rapidamente cancellato dalla cosiddetta repressione statale seguita alla conversione di Costantino nel 312. Il paganesimo scomparì gradualmente, dopo che la gente cominciò ad abbandonare i templi subendo il fascino del cristianesimo. Lo stesso Costantino continuò a fondare templi pagani, e a nominare nelle più alte cariche dell’impero uomini pagani.
Per quanto riguarda il culto «orientale» dedicato alla dea egizia Iside e a Cibele, la dea della fertilità dell’Asia Minore, in realtà queste divinità prepararono la strada per la rapida diffusione del cristianesimo nei territori dell’impero romano.
Altra tesi sostenute da Stark è quella che il culto misterico di Mitra, non fu affatto una sfida al cristianesimo, ma soltanto una credenza minoritaria che non ammetteva le donne e peraltro attraeva soltanto i soldati.
Pertanto per Stark non è esagerato sostenere che le interpretazioni sui primi secoli di cristianesimo devono essere profondamente riviste. Soprattutto occorre sfatare certe leggende nere su Gesù egli apostoli, avanzate su numerosi libri, da alcuni pseudo storici sul cristianesimo primitivo. Queste persone, cercano di «proporre ogni sorta di fantasia storica politicizzata o di invenzioni affascinanti, basandosi sull’assunto che sono altrettanto ‘vere’ quanto qualsiasi altro racconto». Tuttavia secondo Stark, spesso si tratta solo di sciocchezze. A questo punto «il compito dello storico consiste nel cercare di scoprire, nel modo più preciso possibile, che cosa sia accaduto. E’ ovvio che non possederemo mai la verità assoluta, ma questa deve comunque rappresentare l’obiettivo ideale che indirizza il sapere storico».
Il sociologo americano anche in questo saggio è andato alla ricerca delle prove migliori, della storia della Chiesa primitiva. Tra le tante prove documentate che Stark offre al lettore, è che il cristianesimo primitivo fu essenzialmente un movimento urbano. Stark nel libro, ha monitorato le trentuno città dell’impero con una popolazione di almeno 30.000 abitanti, costatando che il cristianesimo si era largamente diffuso proprio nelle città portuali. Il motivo dovrebbe essere ovvio per Stark, in quel tempo per spostarsi si utilizzava le vie del mare e attraverso la navigazione si raggiungevano con una certa facilità i maggiori porti del mare Mediterraneo. «Nell’antichità classica si viaggiava molto di più di quanto oggi si potrebbe pensare. Un’iscrizione su una tomba nella frigia dichiara che un mercante del posto aveva fatto oltre settantadue viaggi a Roma, un percorso di più di milleseicento chilometri solo andata». Del resto, «Qualsiasi studio su come i cristiani convertirono l’impero è in realtà uno studio su come cristianizzarono le città».
Nel 2 capitolo Stark fa l’elenco dettagliato delle varie città dell’impero intorno al 100 d.C. a cominciare da quelle del vicino Oriente, quelle prossime a Gerusalemme. Naturalmente Stark chiarisce che per quei tempi era difficile determinare l’effettiva popolazione residente e non. Nel capitolo lo storico americano determina la natura delle città e la vita cittadina e in particolare la situazione religiosa. Sarebbe interessante soffermarsi su alcuni aspetti della vita cittadina che Stark evidenzia.
Inizia con Cesarea Marittima, con una popolazione di 45.000 abitanti, passando per Damasco, per giungere ad Antiochia, la città fortezza, seconda per importanza dopo Gerusalemme, qui iniziò il cristianesimo primitivo e pare che ad Antiochia fu coniato il termine cristiano. Nel Nord Africa, c’era Alessandria, ricca di storia, 250.000 abitanti, importante per la sua immensa biblioteca e i suoi numerosi studiosi. Poi si passa alla descrizione delle città greche: Atene e Corinto, fino a Tessalonica. Quindi l’Italia, con Roma e Siracusa, e via via fino alle città della Spagna. Naturalmente il libro ci offre tante cartine, ricordando però che il 95% della popolazione dell’Impero vivesse nelle campagne, in piccoli villaggi rurali. Nonostante questo l’impero di Roma fu essenzialmente urbano. Pertanto se si considera che la popolazione totale delle trentuno maggiori città raggiungesse circa due milioni,indica che quei centri ospitavano più o meno due terzi della popolazione greco-romana che abitava in città. Probabilmente era la stessa proporzione anche dei cristiani.
Comunque sia lo studio della storia antica è alquanto difficile, per la mancanza di dati numerici affidabili. Ma la colpa è anche degli storici che non amano le cifre. Stark lo evidenzia nel capitolo conclusivo, infatti scrive: «troppi studiosi hanno scarsa praticità con le tecniche di quantificazione e sono quindi vulnerabili a distorsioni che non hanno nulla di matematico o scientifico».
Nel 3° capitolo l’autore affronta la cristianizzazione dell’impero e quindi delle trentuno città, evidenziando l’importanza dei viaggi, del commercio e l’influenza della cultura ellenistica in ciascun centro. Stark tratta la questione della conversione religiosa, in questo contesto critica chi parla di conversioni di massa dei cristiani. Per Stark, le conversioni di massa sono molto improbabili, per diversi motivi. Stark è convinto che per convertirsi ci vuole tempo, quindi è molto scettico sulle cosiddette conversioni che assumono la forma degli «isterismi di massa». In questo contesto Stark sostiene una tesi originale, crede che la dottrina non svolge un ruolo di primaria importanza nell’attrarre i fedeli. «La maggior parte delle conversioni non è il frutto del lavoro dei missionari professionisti che trasmettono un messaggio, ma piuttosto dell’opera di membri militanti che condividono la loro fede con amici e parenti[…]». Dai numerosi studi sulla conversione è accertato che le reti di relazione sociali costituiscono il meccanismo di base attraverso il quale si verifica la conversione. Per convertire qualcuno bisogna innanzitutto creare un rapporto di profonda e fidata amicizia. Per Stark è un criterio che era valido nel I°secolo ma è valido anche oggi.
Stark cerca di individuare i tassi di crescita dei cristiani. All’inizio è lenta, come si può vedere dalla cartina, nell’anno 150 i cristiani raggiungono ancora 40.000 fedeli. Mentre nel 312, l’anno della conversione di Costantino, le proiezioni parlano di circa 9 milioni di cristiani, pari al 15% della popolazione. Nel 350,la popolazione cristiana raggiunse 31,7 milioni di persone (il 53% circa della popolazione).
Il cristianesimo si sposta verso ovest. All’inizio i romani lo videro come un altro dei culti provenienti da est, e Cristo come un ulteriore dio «orientale».
Stark può affermare che le città portuali tendevano ad essere cristianizzate (cioè avevano comunità cristiane) prima delle città interne. Mentre il 64% delle città portuali avevano una chiesa.
Per quanto riguarda la lingua i primi cristiani parlavano bene il greco, anche le scritture cristiane erano in greco. Per tante ragioni, «il cristianesimo trovo rapidamente un’accoglienza più sicura nelle città dominate dalla cultura ellenica rispetto a quelle in cui l’ellenismo passava in secondo piano».
Il 4° capitolo è dedicato alle divinità di Cibele e Iside, i precursori «orientali». Qui il sociologo americano cerca di fare dei distinguo tra la religiosità romana tradizionale e le nuove religioni «orientali». Il mondo greco-romano naturalmente era politesta, pare che ci fossero ben 30.000 diverse divinità, si «viveva in un universo brulicante di essere divini». In questo periodo molte persone finirono con il dichiararsi atee. A questo proposito Stark ci tiene a ribadire la miscredenza non è moderna, fa alcuni nomi di filosofi come Senofane, Epicuro, Lucrezio. Certo l’ateismo attirava gli intellettuali, ma non poteva attirare il popolo.
Ad ogni modo i filosofi classici erano sempre attirati dal monoteismo, anche se riduceva la divinità a un’essenza impersonale e remota.
Il 5° capitolo si occupa della missione di Paolo presso gli ebrei ellenizzati. E’ una descrizione interessante. Molto è stato scritto sui frequenti viaggi missionari di San Paolo. C’è una ferrea convinzione in molti gli storici, si pensa che la missione cristiana presso gli ebrei sia stata un fallimento e che soltanto una rapida conversione di gentili, impedì al cristianesimo di cader nell’oscurità. E’ una considerazione falsa.
Per Stark, «il cristianesimo agli inizi fu un movimento giudaico, e continuò ad essere dominato dagli ebrei per un periodo considerevole[…]». Per Stark, qui è importante la domanda: «perche all’inizio la missione presso gli ebrei ebbe tanto successo?». Per rispondere a questa domanda occorre «misurare», vedere quanti ebrei fossero in diaspora nelle varie città, prese in considerazione da Stark. «La diaspora ebraica non fu un fenomeno isolato, le enclave etniche erano frequenti nelle città greco-romane». Gli ebrei devoti tendevano ad isolarsi, poi c’erano quelli propensi a venerare anche gli dei locali e a partecipare alle feste pagane, erano quelli ellenizzati. E proprio su questi i cristiani operarono per fare proseliti. Del resto Stark è convinto che le persone non tendono a cambiare la religione quando il loro capitale religioso è ben radicato, maggiore. «La letteratura di ricerca è ricca di esempi che dimostrano che il reclutamento dei convertiti avviene soprattutto fra coloro che hanno un legame molto debole con qualsiasi altra religione». E tuttavia ci sono maggiori probabilità di cambiamento di fede se si offre la possibilità di conservare gran parte del proprio capitale religioso. Quindi «contrariamente al paganesimo, il cristianesimo offriva agli ebrei della diaspora la possibilità di mantenere quasi invariato il loro capitale religioso, e di aggiungere qualcosa di nuovo, dato che il cristianesimo ha conservato tutta l’eredità dell’Antico testamento». Si parlava la stessa lingua, il greco e le funzioni religiose erano modellate su quelle della sinagoga.
In questo contesto entra in scena la missione di Paolo, che ogni volta utilizzava la stessa strategia missionaria, non viaggiava mai da solo,spesso portava con sé una scorta di almeno quaranta seguaci, sufficienti a formare una «comunità» iniziale. E soprattutto utilizzava le reti delle relazioni sociali per il reclutamento. Pertanto come scriveva Helmut Koester: «L’opera di Paolo, quindi, non deve essere pensata come l’umile tentativo di un missionario solitario; essa era piuttosto un’organizzazione ben pianificata e su vasta scala». Ad eccezione di Luca, scrive Stark, «la maggior parte del suo seguito era costituito da ebrei, egli era accolto dagli ebrei, predicava in case di ebrei e nelle sinagoghe, e la maggior parte di coloro che salutava nelle lettere pare fosse di origine ebraica».Del resto per gli ebrei, «il cristianesimo rappresentò un valore aggiunto al loro capitale religioso, per i gentili, il cristianesimo doveva sostituire il capitale».
Altro particolare che Stark annota è che la stessa Palestina, non fu una zona di missione, perché era evidente che gli ebrei ortodossi non avevano nessuna intenzione di convertirsi al cristianesimo. Al contrario degli ebrei ellenizzati, che avevano perso la loro religiosità tradizionale. Pertanto secondo Stark l’ipotesi più plausibile è che l’annuncio di Paolo si concentrò sulle città più ellenizzate, inoltre la sua missione tendeva a svolgersi nelle città portuali e nelle città dove era più presente la diaspora degli ebrei.
La stessa tesi la troviamo nella monumentale opera storica, «Storia della Chiesa del Cristo». Vol.I°.«La Chiesa degli apostoli e dei martiri», di Henri Daniel Rops, pubblicato da Marietti (1951). «La Chiesa viene dai Giudei», scrive a pagina 51. «L’influenza giudaica sulla Chiesa primitiva resterà profonda. Più si studia il Cristianesimo delle Catacombe, più si constata che esso si allaccia in mille modi al giudaismo». Rops nel II° capitolo, dove racconta la grande opera evangelizzatrice di San Paolo (Un araldo dello Spirito. S. Paolo), chiarisce che Paolo fin da principio dovette affrontare la spinosa questione, peraltro decisiva per la Chiesa primitiva: i rapporti fra «Ellenisti» e Giudaizzanti. In pratica si trattava di scegliere fra il quadro ristretto di una piccola setta giudea e «l’orizzonte illimitato dell’universalismo di Gesù». Tuttavia Paolo per la sua formazione, come per «le sue origini facevano di lui un Giudeo totale. Aveva studiato a fondo fra i Farisei, la sacra Scrittura, che egli non lascerà mai di praticare e di citare […]. Dottore della legge, tanto forte in esegesi e in teologia quanto in diritto e in morale, era un vero ‘rabbino’, quando divenne cristiano. Così pure, per tutta la vita resterà fedele ad Israele. E si dichiara, ogni volta che si presenta l’occasione, fiero d’appartenere alla razza eletta, di essere della posterità di Abramo, della tribù di Beniamino, ‘Ebreo figlio di Ebrei’». Pertanto scrive ancora lo storico francese, «Egli si rifiuta di odiare i suoi fratelli di razza, anche quando si mostrano così ostili verso di lui». Tuttavia poi Paolo riuscirà a superare lo scoglio fra il legalismo dei giudei e l’universalismo cristiano.
Ritornando al testo di Stark, il 6°capitolo affronta la questione dello Gnosticismo e delle eresie. «Diversamente da quanto sostengono diversi studiosi, lo gnosticismo non fu una forma di cristianesimo più sofisticata ma soltanto un tentativo infelice di paganizzare la cristianità». I temi sono immensi, naturalmente necessitano più spazi. Dopo le conclusioni finali, il libro è arricchito oltre dalla consueta e vasta bibliografia, da una serie di tabelle comparative per illustrare meglio le tesi del sociologo americano.
Domenico Bonvegna